Mi capita spesso di riflettere sulle cose che scrivo qui dentro. La speranza, non troppo nascosta, è di riuscire a buttare giù delle recensioni che non si fermino al lessico secondo me un po’ fossilizzato dei libri “potenti”, “imprescindibili”, “indispensabili”, “che mi hanno cambiato la vita”. Non che si sia nulla di male. Molto semplicemente non è il mio lessico e va bene così.
A volte mi trovo in difficoltà con alcuni libri perché mi sembra che la grandezza che li contraddistingue sia solo scalfita dalle parole che gli dedico. Una recensione sembra non dargli giustizia, forse sarebbe più indicato un saggio di una trentina di pagine. Però, le cose che scrivo escono un po’ dalla testa e un po’ dal cuore e quindi, mi perdonenere, sono imperfette e irregolari, sono un abbozzo di ciò che un libro può essere. Nel caso specifico sono un abbozzo di quello che il libro è stato nelle mie mani, in mano vostra un libro racconterebbe altre cose, altre storie.
E’ con la consapevolezza di non potervi spiegare fino in fondo quanto sia meraviglioso “L’ultima stagione” di Dan Robertson che mi accingo a scrivere queste righe. Passi l’endorsment di Stephen King, ma “L’ultima stagione” è talmente tanto “grande” che se mi avessero dato un solo libro da leggere nel 2017 l’anno non sarebbe stato sprecato.
Howard Amberson ha settantaquattro anni, ha imboccato la sua ultima strada. La moglie Anne non ha più molto da vivere. L’idea di Amberson a questo punto è semplice quanto appropriata. Prendiamo la macchina e giriamo per gli Stati Uniti. Per quale motivo, chiede Anne. Per capire le cose che ci circondano, per capire la struttura nella quale ci muoviamo, per capire chi siamo, cosa siamo. Caricano la macchina, sistemano le ultime incombenze e partono. La parte del racconto è in terza persona, è uno sguardo esterno che ci accompagna e ci fa percepire i particolari. Ma c’è dell’altro. Howard Amberson ha un’altra idea, quella di scrivere una specie di diario. Una cronaca in prima persona che racconti se stesso, il proprio passato, ma anche quello di Anne. Un modo per definire cosa sono arrivati ad essere a settant’anni. Howard racconta episodi della propria vita. Li racconta con il distacco che gli ha donato l’età, ma nonostante questo si percepisce ancora il fuoco vitale che ha alimentato quei momenti. Come se il caminetto si fosse spento, ma il calore fosse ancora tangibile.
Una scrittura che lentamente ci accompagna nel terreno della maliconia e lascia storditi. Ci sono delle pagine di una bellezza inaudita. La mole del libro è un grande valore aggiunto. La storia si sviluppa ad un ritmo perfetto, che ci accompagna attraverso le pagine. Non c’è fretta, non c’è lentezza. Il passo è proprio quello che dovrebbe avere. Robertson è uno scrittore di primo piano. Un maestro nel delineare l’intima personalità dei suoi personaggi, capace di una profonda empatia e, allo stesso tempo, mai completamente succube. Uno scrittore che sa descrivere perfettamente i piccoli particolari che raccontano la storia di una vita e che sa dosare silenzio e parole con equilibrio.
La traduzione, come nel caso del precedente libro di Don Robertson sempre edito da Nutrimenti (L’uomo autentico) è di quella macchina da traduzioni che risponde al nome di Nicola Manuppelli. A volte ti viene da chiederti se dorme.
Don Robertson (1929-1999), nativo di Cleveland, Ohio, autore di diciotto libri, ha goduto per più di un decennio di un grande successo in America, al punto che uno dei suoi romanzi, The Greatest Thing That Almost Happened, divenne un film per la televisione nel 1977. All’attività di scrittore, che gli valse il Putnam Award e il Cleveland Arts Prize for Literature, ha sempre affiancato il lavoro di giornalista. Senza mai smettere di scrivere, si è allontanato progressivamente dall’ambiente letterario, anche a causa di gravi problemi di salute, fino a venirne dimenticato. La sua recente riscoperta ha rilanciato negli Stati Uniti molti dei suoi romanzi e ha avviato una riconsiderazione critica della sua intera opera.