E’ impossibile raccontare la storia di una casa editrice senza raccogliere la testimonianza di alcune delle persona che ne hanno fatto parte fin dall’inizio. Oggi sono felice di ospitare un’intervista che Daniele Di Gennaro, editore di Minimum Fax fin dagli esordi, ci ha concesso. Lo ringrazio per la sua infinita disponibilità.
Allora, Daniele, Minimum Fax nasce come rivista letteraria e poi, dopo qualche tempo diventa una casa editrice a tutti gli effetti. Mi stavo chiedendo in primo luogo cosa vi passava per la testa in quei momenti e poi com’era la situazione delle case editrici a Roma in quel periodo. Mi sono fatto l’idea che l’ambiente favorisse il fiorire di idee nuove e di avventure culturali.
Tutto è nato nel 1992 a Roma, in un corso di scrittura. Uno dei primi, prima della proliferazione del genere. In un pub romano degli scrittori importanti ci raccontavano la giornata artigianale e il loro mestiere. La passione per la letteratura che fino ad allora avevo vissuto da solo o in relazione con pochi, aveva per me la prima esperienza come esperienza collettiva: la condivisione del peso dell’incertezza rispetto al mondo editoriale era condivisa fra tanti, pesava dunque meno che nell’isolamento in un angolo velleitario e quasi onirico. Roma in quel periodo vedeva fiorire un numero importante di marchi editoriali indipendenti (E/O, Castelvecchi, fra i tanti altri) che diffondevano un clima del “si può fare”, generando una scena alternativa alle grandi case editrici del Nord, che ereditavano idea di industria, soldi e know how. Il non aver avuto poi un rispetto sacrale dell’editoria e della pubblicazione (allora studiavo Giurisprudenza, se avessi seguito Lettere, forse non mi sarei mai permesso di fare l’editore poco dopo i vent’anni) ha facilitato l’iniziativa di Minimum fax, la prima rivista di letteratura via fax, nata poco dopo in piena era pre-Internet. Inediti, racconti brevi, poesie, spedite da un pc portatile sui fax (definiti per l’occasione “rotative domestiche”) degli abbonati “telefonici”. L’unico modo per distribuire, impaginare, ed essere letti senza avere soldi. Gli abbonati pagavano circa 70.000 lire all’anno per ricevere 12 numeri mensili (di circa 10 fogli A4).
C’è stato un momento in cui ti sei detto “ora sono davvero un editore”? E soprattutto cosa significa allora per te essere un editore e cosa significa ora.
Salone del Libro di Torino 1994: fu li che mi chiamarono così per la prima volta. Da lì piano piano una consapevolezza che è cresciuta molto gradualmente. Grazie anche a fiere editoriali come quella, dove si potevano incontrare e interrogare tanti operatori del settore editoriale. L’orologeria produttiva dei tanti diversi mestieri dell’editoria si è rivelata in questo modo.
L’editore: ho vissuto questo ruolo di mediazione fra ricerca e lettori con molta insofferenza per quello che era sempre stata considerata prima l’editoria. Tutto era fondato sul peccato originale del non aver letto ancora, siamo stati allevati sotto lo schiaffo del “leggi, se no resti ignorante”, l’Editore con la E maiuscola aveva un’aura quasi sacerdotale, dalla quale proveniva qualcosa di necessario, dall’alto verso il basso. Il mio rapporto con la lettura è sempre stato un’occasione, un divertimento, un viaggiare perdendomi nell’immaginazione e nelle esperienze altrui, così da vivere in quantità enormi rispetto a quello che avrei vissuto chiuso nell’angolo della mia singolarissima prospettiva. Qualcosa di liberatorio, più che salvifico.
Il mondo dell’editoria tradizionale risente molto della Cultura usata come potere, in chiave quasi punitiva. Ha anche un che di ridicolo ogni ruolo nella divisione “dipartimentale” dei suoi mestieri chiave, una gerarchia piramidale che non prevede gregari: sono tutti capi: Capo Redattore, Capo Ufficio Stampa, Direttore Editoriale, Direttore di collana. In una guerra di posizione senza soldati, senza considerare le persone, il ruolo fondamentale dei lettori senza i quali non esisterebbe nulla.
Allora, e oggi più che mai, trovo quindi ridicola la postura dell’editore omnisciente: siamo sempre debitori con qualcuno di tutto quello che abbiamo avuto la fortuna di conoscere, leggere, capire. Il bello del mestiere dell’editore per come lo vivo è essere sempre circondati da qualcuno più bravo di te in qualcosa. Una delle condizioni più stimolanti fra quelle che si possono immaginare. Un tempo c’era un muro di intransitività fra editore e lettore, oggi grazie ai tanti canali di possibile comunicazione, molti lettori competentissimi fanno da continuo stimolo alla nostra ricerca. Fare l’editore, significa in estrema sostanza ascoltare, accogliere, riconoscere, restituire, imparare, meravigliarsi.
Dando un’occhiata al vostro catalogo, in particolare a quello dei primi 3 anni, ci si accorge che l’approccio con la narrativa è stato molto cauto. Filigrana è una collana di saggistica. Sotterranei è partita con la poesia. Per recupera un vero e proprio libro di narrativa si deve far riferimento al fuori collana “Shamrock. Antologia della nuova letteratura irlandese” del 1994 e “Passo e chiudo” di Francesco Apolloni del 1997 che pure è un testo molto particolare e difficilmente inquadrabile. Da cosa deriva questo approccio? E’ stata una scelta precisa? Perché vista da fuori sembra quasi che vi interessasse di più il dietro le quinte della scrittura.
Tutto questo inizio esprimeva la nostra passione per la saggistica letteraria e per la teoria della scrittura. La serie Macchine da Scrivere (Writers at Work di Paris Rewiew/Penguin) fu per noi molto significativa. Altro elemento era l’impossibilità (Minimum fax è nata senza alcun capitale iniziale) di mettere sotto contratto autori di narrativa di un certo rilievo, essendo noi allora pressoché sconosciuti.
Presa un po’ di forza col passare del tempo, e vagliati un numero di manoscritti sempre crescente, abbiamo guardato alla contemporaneità e alla narrativa del nostro tempo come un obiettivo non eludibile. Che ci ha portato poi ai “classics”, ai padri dei nostri contemporanei, indicati come parte del loro debito intellettuale e letterario.
Mi collego alla domanda precedente. Come avete scelto le prime pubblicazioni. I due filigrana che sono usciti assieme dalla tipografia “Segreti d’autore” e “Scrivere è un tic” o la riscoperta di Lawrence Ferlinghetti?
Gli autori dei primi due (Luigi Amendola e Francesco Piccolo) partecipavano ai corsi (il primo come docente, l’altro, come me, come discente), e diedero vita al primo gruppo di ragionamento, il loro ruolo fu decisivo, essendo già lettori “strutturati” e professionali. Ferlinghetti era stato contattato, incontrato e intervistato dalla stessa rivista: era sparito dalle pubblicazioni in italiano da più di vent’anni, fu felice di ritornare nella sua Italia con la raccolta di poesie Scene Italiane, che portava un suo dipinto in copertina.
Tra il 94 e il 99 Minimum Fax era presente sul mercato editoriale con le seguenti collane. “Filigrana”, “Sotterranei”, “Struffoli”, “Le macchine da scrivere”, “I libri di Carver”, “I quaderni dello straniero”, “Fuori collana”. Se si escludono i casi in cui i nomi delle collane sono “parlanti” ci potresti raccontare come sono nati i nomi storici?
Filigrana è il mestiere dello scrittore, che traspare in controluce attraverso la sua opera. Sotterranei, evidentemente, fu un omaggio a Kerouac e al suo romanzo omonimo uscito nel 1958, Struffoli, un nome giocoso per la collana comica che esordì con Bucchi e Staino (libretti piccoli come le palline del dolce napoletano).
Il motivo per cui mi sono concentrato sul quinquennio 94/99 è principalmente uno. Tutti gli elementi che contraddistingueranno il successo editoriale di Minimum Fax sembrano già evidenti. Da un lato abbiamo l’attenzione alla musica, al cinema e più in generale a tutte le forme d’arte. Dall’altro c’è la poesia, la narrativa più “convenzionale” e quella più sperimentale. C’è qualche elemento di quella prima Minimum Fax che si è perso con il tempo o credi che la casa editrice rispecchi tuttora la stessa varietà e la stessa natura?
La varietà dei generi di collana nasce dalla considerazione seguente: la trasformazione dei linguaggi nasce dallo stesso sentimento sociale (o “senso comune” come lo definì Raffaele La Capria, uno dei docenti dei nostri seminari che per quel che mi riguarda lasciò un forte segno nella nostra esperienza): gli autori che non vogliono ereditare passivamente un canone stilistico o strutturale, gli innovatori, appunto, forzano una lingua per crearne un’altra. Un atto liberatorio per sé e per chi legge. Una linea orizzontale generata dai vertici delle varie arti costituisce una sorta di altopiano, dove si incontrano i linguaggi evoluti, spinti da questo bisogno espresso dagli artisti, che corrisponde a quello latente dei fruitori. L’editoria si salva quando esce dalla trincea editoriale, che per definizione, in quanto trincea, rischia di avere un endemico difetto di visuale. Frequentare con lo sguardo le evoluzioni musicali, grafiche, cinematografiche, letterarie, ha la forza di imporci l’uscita da un ambiente unico che a volta rischia di diventare un piccolo campionato asfissiante, autoreferenziale, ad alto rischio di ripetitività.
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