Leggo Schiavi di un dio minore di Loredana Lipperini e Giovanni Arduino e mi piglio di collera. Mi faccio il sangue acido, proprio, perché Schiavi di un Dio minore è un libro stupendo, che contiene la verità dei nostri tempi, nient’altro che la stramaledetta verità, sintetizzata in un pugno di esemplari storielle su sfruttamento, precariato e sfiga. Un libro che si dimostra eccezionale fin dalle prime pagine, con quella citazione pertiniana e del Pertini pazienziano che conferma una delle poche certezze di questi miei anni tecnologicamente sfavillanti e umanamente calboniani (dal geometra Calboni di fantozziana memoria): nessun importantissimo libro potrà mai cambiare il mondo, ma uno bello potrà salvarmi la vita. O renderla più sopportabile (e questo nonostante la collera di cui sopra). Penso agli Iron Maiden, che nel 1984 cantavano “All around is laid waste, and in my last hour I’m slave to the power of death”. Il disco era il grandioso Powerslave e che il mondo sarebbe finito in una certa maniera lo urlavano i metallari e i fumettari. Tutta gente poco raccomandabile. Drogati! Di sicuro nessuno pensava che ci saremmo liberati dalla schiavitù della morte tanto presto (tanto per rifarmi al testo fantasy degli Irons di Powerslave), ma almeno da quella del lavoro, santo cielo, quello era un dato acquisito, un obiettivo indiscutibile a cui avrebbe puntato tutta l’umanità come un sol uomo. E invece… chi si sarebbe potuto immaginare che saremmo finiti come tanti cospirazionisti senza né arte né parte inficcati a forza in una specie di reality show da cui è impossibile scappare? Noi no di certo, nonostante tutta quella fantascienza di cui ci cibavamo e tutte quelle angosce che non erano gratuite, nossignore, non lo erano nemmeno un po’. Ma all’epoca eravamo piccoli e ci godevamo il metal (e i fumetti) cercando di non pensare al momento in cui saremmo diventati come i nostri genitori e come gli amici dei nostri genitori. Con un lavoro, cioè, lo stipendio il 27, le rate da pagare, le ferie, la nuvole dell’impiegato eccetera. Era tutto un fuggi fuggi dal mondo del lavoro. E già qui si intravede l’odore fetido della fregatura che ci stavamo auto-infliggendo. Proprio una bella pensata eternizzare il travet, questo errore sindacalizzato della storia, con le sue paturnie impiegatizie, fino a renderlo un’esecrabile macchietta. E così tutti come tanti Pat Bateman, occhiali da sole firmati (o vu cumpra’, fa lo stesso) e via, a sognare spiagge e culi e balli e macchine e tutto quel campionario lì, che poi si è evoluto piano piano nel corso degli anni fino a ipostatizzarsi in un bel tatuaggione sul collo, che fa tanto Visitors. Il fatto è che quello da cui scappavamo a un certo punto è finito. Pum. Morto. Scomparso. Il lavoro con stipendio e diritti è andato. Un errore della storia. E la vida loca che ricercavamo come tanti piccoli Faust si era trasformata in un contratto di lavoro a cazzo, senza diritti e con stipendio da fame. Come nel paese dei balocchi di Pinocchio. Quello che non immaginavamo, per di più, doppia fregatura, era che i diritti sarebbero scomparsi, ma in compenso saremmo entrati a far parte di una grande famiglia. Non avremmo avuto uno stipendio e un orario di lavoro che ci avrebbero permesso di comprare casa e pagare le bollette e crescere i figli, ma avremmo compensato lavorando come schiavi sorridenti agli ordini di un grande fratello bonario, che usa parole gergali, ci dà le pacche sulle spalle e ci permette di sfiorare la sua aura, di odorarla, di ammirarla. L’era della prospettiva carismatica nella sua riproducibilità tecnica si sarebbe sostanziata in milioni di gallerie fotografiche a uso e consumo di milioni di precari malati di selfie e chef-dipendenti. Un’intera generazione è stata sacrificata sull’altare del mercato, dell’efficienza, delle altre supercazzole a cui abbiamo abboccato dimostrando l’inutilità delle nostre lauree. Ma tanto abbiamo ancora il nostro tablet fabbricato dagli altri schiavi, a migliaia di chilometri di distanza, per poter scaricare la rabbia e la frustrazione insultando a casaccio sul web. Per esempio infamando i lavoratori delle grandi catene di distribuzione quando osano protestare per i loro diritti (il libro, e le nostre vite, sono pieni di esempi di tale imbarazzante tracotanza). Siamo diventati la mano con cui ci schiaffeggiamo ogni giorno, ma solo dopo aver fotografato il cornetto industriale carico di grassi, zuccheri e altre porcherie che stiamo consumando in un manicomiale bar da quattro soldi a cui qualcuno ha dipinto le pareti di bianco per attirare i gonzi. Pensavamo che non ci fosse niente di peggio del lavoro di papà e abbiamo applaudito i figli di papà che cancellavano i diritti per cui i nostri nonni avevano lottato. Bingo. Una patente da coglioni e un lavoro precario a cinquecento euro al mese non ce li può più togliere nessuno, raga.
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Angelo Orlando Meloni
Angelo Orlando Meloni è nato a Catania e vive a Siracusa, dove lavora nella libreria storica della città. Ha scritto il ponderoso, poderoso, pretestuoso romanzo Io non ci volevo venire qui, breve manuale di autodistruzione per il conseguimento della felicità, la sceneggiatura (insieme a Gabriele Galanti) del fumetto pulp-pure-troppo-pulp Triviale, dietro le cattive intenzioni (disegni di Massimo Modula), il romanzo comico-avventuroso-filosofico & di tutto di più Cosa vuoi fare da grande, il romanzo breve horror-tragi-zombi-comico-editorial-apocalittico La fiera verrà distrutta all’alba (Intermezzi editore). Il suo ultimo libro, uscito nel 2019, si intitola Santi, poeti e commissari tecnici, ed è stato pubblicato da MIraggi edizioni.
18 comments
Grazie! 🙂
Loredana Lipperini
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Ma grazie di cuore!
grazie a voi, libro super bello & bellissimo & pure necessario! 🙂
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La patente da coglioni ce la tramandiamo da generazioni, vedi “Il popolo dell’abisso” in lettura su Radio3 in questi giorni. Chiusi in gabbia e in catene: sempre con gli stessi meccanismi, sempre con le stesse chiavi. Solo riverniciate di fresco. E noi ad essere perennemente distratti, noi a mettere i gerani sul davanzale della finestra della nostra cella
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