Dopo la pausa natalizia, su Senzatraduzioni riparte la discussione sui costi per la produzione di un libro, inaugurata con questo articolo e proseguita con l’intervista a Eris edizioni (e con i commenti sotto il post). Oggi, ospitiamo volentieri una riflessione di Daniele Petruccioli, che si chiede e ci chiede: quanto costa un traduttore?
Il diciotto dicembre scorso, leggendo questa intervista su Senzaudio a proposito dei costi di produzione (e distribuzione) del libro, ero rimasto colpito da un’affermazione dell’editore intervistato, che, in risposta a uno dei commenti in calce sullo status contrattuale dei traduttori, sosteneva di aver deciso “per il momento di non fare regolare contratto a meno che il testo sia particolarmente specifico rispetto alla fruizione delle immagini”. Per me, che faccio il traduttore, quest’affermazione era stata un po’ un pugno nello stomaco, tanto più che la casa editrice si presentava come risultato di un progetto coraggioso e attento all’etica. E lo era: due giorni dopo, infatti, a seguito di un altro articolato commento della traduttrice Isabella Zani sulla stessa pagina, gli interpellati si dimostravano attenti e disposti a tornare sulle loro affermazioni. Erano d’accordo sull’importanza del nostro mestiere e sul diritto di vederlo contrattualmente riconosciuto come tale. Semplicemente, non ci avevano pensato.
Ora, se nemmeno gli operatori del settore più impegnati trovano spontaneamente uno straccio di motivo valido per considerare il traduttore parte integrante del processo di produzione di un libro, dev’esserci qualcosa sotto. Non è possibile che sia un caso, e ho la sensazione che non sia nemmeno un problema esclusivo degli editori. Mi sembra piuttosto che questa rimozione del traduttore come operatore culturale sia una cosa che ci accomuna un po’ tutti.
Che lo si ritenga poco più di un tecnico in attesa di essere sostituito dal giusto software, o che lo si elevi ad artista purissimo destinato ad aleggiare sul rovescio dell’empireo culturale (una specie di antimateria dell’universo letterario), pare ci sia una certa difficoltà a considerare il traduttore semplicemente uno che fa un lavoro creativo, come stabilisce l’articolo 4 della legge sul diritto d’autore. Noi stessi traduttori, vuoi per ideologia, vuoi per disinteresse, vuoi per agorafobia o anche solo per stanchezza, sembriamo timorosi di entrare nel dibattito e addirittura di definirci per quello che siamo.
Di solito se fai solo il traduttore ti senti un po’ in colpa, hai la sensazione che ci si aspetti tu sia almeno un poeta o uno studioso. Traduttore e basta fa un po’ squallido. Come se fosse troppo poco. Nonostante il grande lavoro di associazioni vecchie e nuove come Aiti e Strade, e nonostante la sempre maggiore presenza dei singoli traduttori sulla rete anche attraverso le loro pagine e blog (spesso ottimi), il nostro resta un mestiere ancora troppo legato, secondo me, al concetto di invisibilità. In parole povere: se sei un traduttore, dovresti avere il buon gusto di non farti notare.
Di alcune possibili motivazioni ideologiche dietro a questa sottrazione surrettizia ho provato a scherzare seriamente altrove. Qui vorrei cominciare a chiedermi quanto un traduttore così labile e impalpabile (in termini di ruolo e di remunerazione) venga poi fatto pagare ai libri che compriamo, leggiamo, amiamo (o meno).
Un traduttore che non si sa come si chiama, che già gli va bene se ha un contratto in diritto d’autore, e che guadagna circa la metà della media europea, sarà giocoforza, prima di tutto, un dilettante. Si troverà spesso costretto a cercare anche un altro lavoro, non avrà tempo per dedicarsi alla traduzione a tempo pieno, probabilmente alla fine lascerà perdere una carriera che lo maltratta in nome di una levità che sembra solo sua.
Chiunque pratichi un’arte, infatti, sa di doversi dedicare alla sua pratica, pena, al netto di qualsiasi talento, una minor bravura. L’artista e l’attore vanno a bottega, l’architetto disegna, di un musicista fuori esercizio non c’è nemmeno bisogno di parlare. Tutti si allenano: solo il traduttore, secondo questa vulgata, apre la pagina e traduce.
E invece il traduttore editoriale deve badare a mantenere accesi i fornelli sotto mille piccole capacità (a parte l’ovvietà della competenza linguistica) che riguardano soprattutto le pratiche di lettura (in almeno due lingue) e scrittura. Per forza, se vuole esercitare i registri e i trucchi sintattici necessari al ritmo e alla costruzione di quello che ultimamente la moda vuole si chiami “voce” (che i traduttori di volta in volta devono inventare in una lingua nuova, ricreando qualcosa che c’era già eppure non c’è ancora…). Se per qualsiasi motivo trascura di farlo, perderà la mano. Scriverà peggio, dunque tradurrà peggio. Anche se è bravo.
L’altra faccia di questa medaglia è il traduttore che per sbarcare il lunario accetta troppi lavori e non ha il tempo materiale per eseguire i suoi compiti al meglio. Oltre un certo numero di pagine al giorno non c’è più spazio per la creatività, si diventa una macchina, con tutti i limiti che la cosa comporta (primo tra i quali, quello di tradurre parole anziché testi).
Nell’uno o nell’altro caso, sia dovuto al troppo o al troppo poco, questo dilettantismo di ritorno, questa “prescindibilità” delle voci degli autori stranieri nella nostra lingua può finire per ricadere proprio sui loro testi, che rischiano di mancare di quegli ingredienti (impalpabili, è vero, ma non per questo meno imprescindibili: ironia, ritmo, gioco semantico, musica lessicale…) di cui si compone quello che chiamiamo stile.
Mi sembra un prezzo alto. Non costerebbe meno fare sempre un contratto ai traduttori, e garantire loro un compenso equo?
Daniele Petruccioli
Daniele Petruccioli è nato e vive a Roma. Lavora come traduttore, scout ed editor freelance. Tiene regolarmente laboratori di traduzione e insegna traduzione dal portoghese all’università di Roma Tor Vergata. Fra i suoi autori: Dulce Maria Cardoso, Alain Mabanckou, Will Self, Luandino Vieira. Nel 2010 ha vinto il premio “Luciano Bianciardi” per la traduzione del romanzo Lettere di Mark Dunn (Voland 2008).
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