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Prima di respirare di Vincenzo Zonno

by senzaudio
Vincenzo Zonno, prima di respirare,

Umido e freddo. Alberi larghi e bassi sfioravano il terreno con rami e ragnatele di muschi viscidi simili a gelatine. E i mille sentieri dall’intersezione con le sottili canne e le graminacee selvagge, non invitavano ad avventurarvisi rischiando. Ma i pensieri l’avrebbero fatto un salto per rabbrividire un attimo e subito fuggire via. Stava scostato quel mondo. Stregato. Mentre questo lo guardava timoroso a una discreta distanza. Più secco e duro e spoglio. Sporco di un uso improprio ed eccessivo. Piccoli ciuffetti rompevano il terreno a chiazze e macchiavano di verde stanco un terreno giallo e ingrigito. Le onde di fango della mattina si erano seccate per un vento che aveva frustato la radura per l’intera giornata. E si erano indurite e imbiancate di polvere di ghiaccio simile a un unico gioiello tempestato da minuscoli diamanti. Stessa consistenza. Stessa ipnotica freddezza. Di distante incanto. Si percepiva un’invadente stanchezza del mondo a soffermarsi ascoltando. La sentivano le piante e gli animali, e gli uomini.

L’elefante sbuffava e una nuvola bianca si diffondeva e impregnava il paesaggio per vari metri. Dondolava il capo e disegnava il contorno del recinto di legno tastandolo con la proboscide. Delicatamente. Misurava la propria prigione, strattonando la catena, e la sua gamba continuava in questo psicotico movimento che non portava a nulla se non diffondere il tintinnio dei ferri che sbattevano fra loro. A ogni tensione giocava o si annoiava, o soffriva.

Anche le tigri non dormivano. La più giovane vagava nella piccola gabbia avanti e indietro ossessivamente. Animali che per natura errano per decine di chilometri, erano costretti in gabbie di pochi metri quadri e s’innervosivano alimentando la propria rabbia. La più irruente la percorreva senza sosta. L’altra si limitava a rimarcare rumorosamente il proprio disappunto. Il suo ruggito si sarebbe udito a chilometri di distanza superando qualsiasi ostacolo e istillando un senso di sconcerto in tutti quegli esseri d’improvviso avvolti.

I cavalli erano tranquilli. Si muovevano appena. La loro giornata li aveva lasciati senza un attimo di tregua pure in questo piccolo circo con pochi numeri sufficienti a un sorriso appena abbozzato. La notte gli portava un po’ di riposo e loro non la sprecavano neppure per nutrirsi. L’esigua compagnia, intanto, dormiva da varie ore e a breve qualcuno sarebbe sbucato dalla propria roulotte per iniziare la giornata. Ma ora morivano rumorosamente nei loro spaventevoli sogni, rannicchiati bizzarramente nel proprio giaciglio fatto di assi e stracci sapientemente dosati.

Kiko. Proprio in quel momento. Si svegliò. Non disturbò e aprì con cautela le palpebre muovendo soltanto un impercettibile flusso d’aria che si disperse rapidamente nella pesante coltre dentro il carro. Vide il buio e lo riconobbe come un amico. Complice e rassicurante.

Non accese la piccola torcia tascabile aveva poggiata di fianco. Si alzò piano e iniziò a indossare tutto ciò che aveva cercandolo tastando il vuoto: tre paia di calzettoni, un pantalone e sopra una gonna, varie maglie e un giubbotto di pelle scolorito. Apparve comunque minuscola al bagliore della luna che la disegnò appena un raggio si fece strada da una finestrella. Un spiritello incantevole. Tornò al proprio giaciglio e infilò le mani sottili nell’oscurità. Il suo sguardo era inquieto e disegnava solchi innaturali sulla sua fronte delicata. Se la tastò, rapida, in cerca di sudore che non poteva starci in una serata così rigida. E spostò il fantasma di un capello che le stuzzicava fastidiosamente la guancia. Aveva lunghe chiome turchesi. Sfibrate. Stavano a fatica dietro le orecchie generandole una rabbia impulsiva. Ingoiava a vuoto ma ne sentiva lo stesso un sapore amaro e fastidioso. Alimentava la propria ansia e consumava l’ultima poca aria respirabile.

Finalmente trovò ciò che cercava. I capelli cascarono l’ennesima volta coprendole gli occhi, ma non produssero odio. Non stavolta. Guardò, strette nella mano, le chiavi della roulotte nella quale si era svegliata quella e tutte le notti della sua vita. E visse questo momento con la paura e quel pizzico di coraggio sufficiente a sconfiggerla. Questa notte non sarebbe rimasta a piangere rannicchiata nel giaciglio. Non avrebbe fissato il vuoto. Il tetto basso. La disperazione. Un misero rifugio fatto casa. Rassicurante a forza. Non questa notte.

Su un altro squallido letto riposava un grasso omone. Dal misero lenzuolo si intravedeva la sua enorme schiena bianca, unta e piena di peli scuri spessi come filo metallico. Russava e lo si udiva al pari delle tigri. Di lui, lei conosceva soltanto schiaffi e percosse. Aveva udito solo i suoi insulti e veduti gli occhi iniettati di rabbia o sconfitti dall’alcol. Lui non le era padre né marito. Né il fratello. Niente. Solo il custode di una bimba che cresceva fino a divenire un’adulta senza emozioni.

Quando uscì dalla roulotte, lo guardò un attimo poi chiuse la porta e lanciò le chiavi per terra, vedendole svanire fra i cespugli. Un ultimo luccichio la dissetò da un arsura atavica. E sorrise in un brevissimo istante. Si strinse nelle braccia e schiacciò le labbra. Una contro l’altra. E s’asciugò in naso che aveva generato gocce di muco frizzante. Come un sottile torrente. Poi fissò gli alberi e scardinò l’impregnata boscaglia con un pensiero e rabbrividì.

Fece alcuni metri e raccattò una borsa coperta da un grosso cespuglio. L’aveva nascosta giorni prima. Certa che sarebbe accaduto qualcosa. Senza dar conto ad altri pensieri, e come destata da un brutto sogno, d’improvviso si mise a correre ma si arrestò soltanto dopo alcuni passi.

Tornò indietro. Piano. Con lo sguardo dolce e tranquillo. Prese una minuscola balla di fieno dal recinto dei cavalli. Appariva enorme accanto alla propria esile figura. A fatica la trascinò davanti alla roulotte e l’infilò di forza sotto la porta. Si fece indietro e spolverò il cappotto dalle pagliuzze che vi erano rimaste imprigionate.

Aveva gli occhi lucidi e le labbra si mossero appena per fare uscire un flebile sospiro liberatorio. Sorrise di nuovo, più a lungo stavolta, non le accadeva. Mai così tante volte in una sola sera. E ci pensò addolcendo il proprio sguardo che carezzo l’immagine fredda dell’accampamento misero. Sognò i suoi mille incubi come fossero una favola distante che finiva con i cattivi in gabbia: con lo stomaco squartato e riempito di pesanti sassi. Sognò ogni sogno. Cancellandoli a uno a uno. Svuotò il cervello e ne provò una profonda liberazione. Rilassante ed eccitante. L’una dopo l’altra. Si avvicinò a quella che da sempre era stata l’unica sua vita. L’unica incerta certezza. La sola esistenza che aveva conosciuta. E la cambiò in un attimo con il nulla. Le diede fuoco senza emozioni. Poi volse lo sguardo altrove e si mosse piano aumentando il passo a ogni respiro. Fuggì, consumandosi, infine, rapidamente nella palude.


Vincenzo Zonno, classe 1966, nasce a Brindisi e vive a Bologna dal 1990. Ex cantante in un gruppo rock poi ballerino e regista di danza classica e contemporanea. Esordisce nel 2015 con il romanzo storico Non è un vento amico, pubblicato con Vocifuoriscena, che a seguire ottiene un piazzamento fra i primi cinque nel concorso Perseide officine Circe di Roma. A settembre pubblicherà il romanzo storico Scherlock Holmes e la grande madre per la collana sherlockiana della Delos. Pubblica alcuni racconti su Letture Sconclusionate, Racconti Scontati, Chronicalibri e a breve su Spazi inclusi. Partecipa a un contest in una trasmissione di Radio 1 RAI con ottimi risultati.

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