E’ sabato, il sabato del Bookpride. Devo intervistare Paolo Morelli. Ho letto il suo libro e mi è piaciuto parecchio. Uso il tempo passato seduto in treno per raccogliere le idee, ma a raccogliere non sono mai stato bravo, sono sempre stato il migliore a perdere.
Girovago tra gli stand del Bookpride rompendo le scatole a tutti quelli che mi danno confidenza fino a che i corridoi si riempiono e poi all’improvviso mi presentano Morelli.
Mi chiede se possiamo fare l’intervista fuori perché ha voglia di fumarsi una sigaretta e mentre il fumo si fa trasportare verso l’alto da una leggera brezza che lo disperde nel sole io mi faccio coraggio e lascio uscire quello che scantona nella testa.

Vorrei iniziare dal titolo. Dopo aver terminato il libro la prima cosa a cui ho pensato è che la continuazione di “Né in cielo né in terra” era “c’è riposo” perché c’è questa mancanza che si identifica con gli espropri e gli sfratti che in qualche modo si riverbera nel sogno e in quella sorta di dialogo con l’aldià. Sì, esatto. Il libro lo dice anche, sono avvenimenti destinati a ripetersi. Io posso ipotizzare che il mondo dell’aldilà sia un po’ una cosa del genere in cui le cose continuano a riverberare come ci fosse una eco che poi forse andrà spegnendosi, ma che in questa narrazione continuano a ripetersi. Ognuno ha i suoi difetti e li perpetua in qualche maniera.

Il ruolo che ha il ghostwriter all’interno del libro è molto particolare. Solitamente un ghostwriter si estranea dal testo che scrive o almeno tenta di farlo. In questo libro invece il ghostwriter ci parla, interagisce con i personaggi e con noi. Sì, infatti poi lui lo dice, lui è sempre stato solidale, disponibile. Questa disponibilità lo porta a prendersi cura di quelli che sono stati poi dei miei amici,  non dimentichiamolo. Queste sono persone che hanno riempito molti dei miei anni. Ed è una cosa che io portavo dentro da molto quella di scrivere per gratitudine verso di loro.

C’è una cosa che a me è piaciuta molto, il libro sembra quasi una tela dipinta in cui compaiono questi personaggi. La tela poi viene interpreta dallo sguardo di chi la guarda, in questo caso dal lettore immerso nella lettura. Questi personaggi sembrano interpretare un ruolo come fossero personaggi fissi di una commedia teatrale che però hanno in sé qualcosa di tremendamente vitale e reale. Anche il professore che ciabattando in canottiera va a prendersi la borsa con le sigarette…
Il Professor Musonio Rufo, era uno stoicismo, uno dei capi dello storicismo a Roma. Maestro di Seneca e di Epitteto. I nomi sono nomi parlanti, sono stati scelti in base alle caratteristiche dei personaggi.

Mi scuso se le do l’impressione di saltare di palo in frasca.
No no, è come ragiono io solitamente.

Questo flusso di coscenza continuo, come è riuscito a crearlo?
C’ho messo moltissimo a scrivere questo libro, anche dal punto di vista tecnico. Perché sono partito da una delle cose che mi hanno riempito e mi hanno nutrito della gente che ho incontrato in quel periodo, lo spirito di contraddizione. Tipicamente romanesco. Oltre che una passione per le cause perse. Quindi partendo dall’assunto che in Italia i libri di narrativa presumono un lettore idiota, se non nel migliore dei casi un cliente, un sottoposto, io ho chiesto parecchio al lettore, specialmente all’inizio. Per farlo però ho dovuto cercare un meccanismo, una voce che fosse molto precisa e per trovare tutto ciò ci ho messo dieci anni. Nel senso che per dieci anni ho fatto il cronista sportivo per “Il Manifesto” e le cronache erano tutte incentrate su un dialogo, probabilmente un dialogo interno al tifoso. C’erano due aspetti, il cronista e il tifoso incallito e lì ho rodato questa lingua che poi ho utilizzato nel libro.

Io sono un lettore che cerca di cogliere sempre le sensazioni che nascono dalla lettura di un libro, aldilà di quelli che potrebbero essere i messaggi che lo scrittore aveva in mente. Ho trovato il suo libro molto crepuscolare, un libro da fine estate. La scena finale con quella frase su Roma (che non cito per non rovinare la lettura) racchiude un senso di fine.
Sì, anche se spero di aver evitato aspetti nostalgici perché quello che volevo comunicare era l’amore per un’epoca molto meno vera di questa in cui la coincidenza tra realtà e verità ci sta portando ad una visione sempre più ristretta. Una cosa che succede anche nella letteratura .

Cos’è per lei questo sfratto selvaggio, questo dover abbandonare forzatamente il proprio posto nel mondo?E’ uno degli aspetti di questa nuova forma che il potere ha assunto, del tutto nuova nei millenni. Oggi il potere impone ai sottoposti di credere che il potere non ce l’abbiano. Il potere oggi è anche dissidente, perseguitato, non lascia spazio per niente perché se sono loro i perseguitati non puoi avere voce in capitolo te. Quindi i ricchi si comprano i centri città, perché porta povero. C’era un mio amico borseggiatore che diceva che se vuoi borseggiare un ricco devi guardare uno che è vestito male, non uno che è vestito bene. Il povero tende a vestirsi bene, è il ricco che tende a vestirsi male, oggi. E’ una questione di dignità.

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