Ho avuto la fortuna di scambiare quattro chiacchiere con Ezio Sinigaglia, quanto segue e il resoconto della nostra conversazione.

Alla fine del testo sono riportate la data di inizio e di fine del processo di scrittura. Un periodo breve, l’impressione è che lei abbia scritto “Eclissi” quasi spinto da un’urgenza interiore.

La datazione che appare in fondo all’ultima pagina di Eclissi è veritiera e insieme fuorviante. Cominciai effettivamente a scriverlo a Milano il 20 marzo 2014, cioè un anno esatto prima dell’eclissi che mi aveva dato l’idea di partenza. Nei giorni o al massimo nella settimana successiva scrissi il primo capitolo e alcune pagine, non più di quattro, del secondo. Ripresi il lavoro due mesi dopo, una volta arrivato in quello che chiamo “il mio eremo”, a Poggio Martino, in Tuscia, verso la fine di maggio. La composizione del romanzo è stata quindi in realtà ancora più rapida di quanto le date non dicano. Direi quasi febbrile. Perciò affermare che ero spinto da un’urgenza interiore non è certo fuori luogo. Devo ammettere che ultimare un romanzo in un tempo così breve non è cosa consueta, per me. Ma, prendendo il termine “urgenza” nell’accezione di “bisogno” più che in quella di “fretta”, posso dire che io scrivo sempre così e che, da quasi quarant’anni a questa parte, il mio metodo (tutt’altro che metodico) di lavoro non è per nulla cambiato. In assenza di questa necessità interiore, non scrivo. Quando metto mano a un romanzo di dimensioni più cospicue, procedo – se posso prendere in prestito questo termine medico – per poussées, con ardenti fasi acute, di durata variabile, e lunghi periodi di remissione. Per un romanzo breve come questo, due poussées, un fuoco di paglia marzolino e un poderoso incendio di giugno, sono bastate. Non vorrei scandalizzare i lettori, perché certe verità vanno contro la morale corrente: il fatto è che io credo nell’ispirazione. Non so bene che cosa sia, né da dove venga, ma ci credo. E credo anche che chi non ce l’ha, chi non la sente, farebbe meglio a non scrivere affatto. Ho scritto migliaia di pagine senza ispirazione, a puro scopo di sopravvivenza, e so bene quanto sia faticoso e fino a che punto questa fatica lasci le sue pesanti tracce fra le righe. Se non è per la pagnotta, non ne vale la pena, dal punto di vista dello scrittore. Per il lettore, poi, un libro privo di ispirazione non vale neppure il suo modesto – quando è modesto – prezzo di copertina.

Akron decide di regalarsi un ultimo viaggio e come meta sceglie una piccola isola con l’idea di assistere ad un’eclissi di sole totale. Mi è sembrato interessante che lui cerchi una sorta di luce della verità nel bel mezzo di una oscurità totale. Come le è venuta questa idea?

Penso che le idee, le buone idee narrative, non mi vengano dall’esterno, dal caso, da una visione improvvisa e fulminante, ma che stiano nascoste dentro di me per molto tempo prima di salire alla superficie. Ricorrerò ancora una volta a un termine medico: le idee attraversano una lunga fase “subclinica”, senza dare segni di una certa importanza finché non abbiano accumulato una forza sufficiente per manifestarsi sotto forma di sintomi acuti. L’idea dell’eclissi si è probabilmente insinuata nel mio organismo oltre mezzo secolo prima di dar vita a questo romanzo. Nel febbraio del 1961 ebbi la fortuna di assistere a un’eclissi totale di Sole, in Liguria. Non avevo ancora compiuto tredici anni e ne riportai un’emozione fortissima che, negli anni e decenni successivi, di tanto in tanto riaffiorava in me assumendo l’aspetto ingannevole del desiderio: mi sembrava di voler provare di nuovo quell’emozione, almeno una volta, da adulto, per riuscire a separare quel che – nell’emozione – era proprio dell’infanzia da quel che apparteneva allo spettacolo in sé. Quando, nel marzo del 2014, in una delle mie disordinatissime esplorazioni di internauta, appresi che il giorno dell’equinozio di primavera dell’anno successivo ci sarebbe stata un’eclissi totale di Sole che avrebbe interessato il Polo Nord, il desiderio trovò la sua soddisfazione in una forma diversa da (ma straordinariamente simile a) quella del viaggio di scoperta. Potevo delegare il viaggio a un altro corpo, quello del protagonista della storia, e assaporare di nuovo l’emozione di 53 anni prima. Perché quella data e quei luoghi abbiano tanto colpito la mia fantasia è presto detto. C’erano tre cose rare che confluivano in un unico evento: l’eclissi, l’equinozio e il Polo Nord. Tre cose che, ciascuna a suo modo, parlavano di luce e di tenebra. L’equinozio tiene in equilibrio la luce e l’oscurità, dividendole in due metà esatte. Il polo è il luogo in cui si hanno sei mesi di tenebra alternati a sei mesi di luce. L’eclissi è quello strano fenomeno per il quale le nostre due principali fonti di luce, una diurna e l’altra notturna, il Sole e la Luna, generano, sovrapponendosi l’una all’altra, la notte nel pieno del giorno. L’antica memoria dell’eclissi si mise finalmente in movimento e il piano risultò tracciato fin da subito. Scrissi l’incipit di getto: “Il suo progetto puntava dritto all’oscurità per cogliervi una luce”. Basta volgere alla prima persona il pronome possessivo, ed ecco il progetto del mio romanzo: puntare dritto all’oscurità per cogliervi una luce. Il più era già fatto. Dai paradossi, dai capovolgimenti del quotidiano nascono spesso le idee più interessanti.

Uno degli aspetti che ho apprezzato di più è l’uso della lingua. In particolar modo la precisione con la quale lei ha creato per Mrs Clara Wilson una lingua nuova perfettamente plausibile. E’ stato difficile cimentarsi in questa impresa?

No, per la verità non è stato difficile. Ho sempre amato le sperimentazioni linguistiche. Il mio primo romanzo, Il pantarèi, ne traboccava addirittura, e anche in quel libro c’era un personaggio femminile che parlava una lingua tutta sua. La difficoltà consiste piuttosto nell’integrare giochi di questo tipo nel corpo del racconto, facendoli scaturire con naturalezza e quasi per necessità dalle situazioni ambientali e dalle dinamiche dei rapporti. Il lettore non deve avere la sensazione di trovarsi davanti a un artificio: altrimenti la verosimiglianza ne soffrirebbe in misura inaccettabile. Ma è un problema, questo, che riguarda in generale la resa del parlato nei testi narrativi. La credibilità dei dialoghi è una delle sfide più serie che un romanziere debba affrontare e vincere, e ho sempre dedicato una un’attenzione quasi maniacale a questo aspetto del mio lavoro. L’italiano americanizzato di Mrs Wilson ha posto semplicemente qualche problema tecnico in più, quello ad esempio della coerenza delle trascrizioni fonetiche. Ritengo che problemi di questo genere, cioè squisitamente tecnici, siano di difficoltà modesta per ogni scrittore che si rispetti. Non c’è neppure bisogno di talento per risolverli: basta il mestiere.

C’è un particolare che mi ha incuriosito. Lei ha “battuto” molto sulla natura basaltica dell’isola, perché? C’è qualche motivo particolare?

Mi sembra di poter dire che in questo breve romanzo ci sono pochi personaggi veri e propri, ma parecchi impropri: vegetali, animali e inanimati. L’erba, gli uccelli, l’eclissi, la Stella Polare, il vento, l’oceano, la cattedrale scoperchiata… Fra questi personaggi non umani il basalto spicca indubbiamente per la sua presenza nera, muta e quasi ossessiva. Conosco bene la Sardegna, dove ho vissuto per circa vent’anni e che frequento ancora con una certa assiduità. È stata la Sardegna a insegnarmi il ruolo decisivo che la natura della roccia esercita nell’imprimere personalità ai paesaggi. La Gallura interna perderebbe gran parte della sua magia senza il granito. L’Anglona non avrebbe nemmeno un quarto della sua bellezza se le mancasse una delle due pietre, il calcare e la trachite, che ne compongono l’affascinante bicromia. E della stessa Cagliari che cosa resterebbe senza l’onnipresenza accecante del tufo? La roccia è la base e lo sfondo di ogni paesaggio. Akron è un architetto e lo sa bene. In un passo di pag. 61 le ragioni di questa attrazione si fanno esplicite: “Akron pensò che il carattere dell’isola era dato da quel basalto scuro e duro, che offriva a tutto la sua base solida, la sua reticenza cromatica contro la quale ogni colore era splendente, la sua ottusità incrollabile, così legata al basso e al vile, ma nelle cui cavità nidificavano gli uccelli. Si domandò per un istante perché questi basalti neri e forti, eroici e muti, lo incantassero come uno specchio e, insieme, lo impaurissero e schiacciassero come un karma.” Mi sembra che in queste poche righe il lettore possa trovare la giustificazione della presenza ossessiva dei basalti dal principio alla fine del romanzo. Fra il basalto e il protagonista esiste una paradossale analogia, e nella roccia nera, eroica e ottusa, così oscura da esaltare la luce e il colore di tutto ciò che la circonda, Akron arriva a leggere confusamente il proprio stesso destino. Come vede, il basalto è uno dei tanti luoghi simbolici del romanzo che parlano di luce e di tenebra, e del loro rapporto di forte dipendenza reciproca: in mancanza della tenebra la luce non può manifestarsi, mentre d’altra parte, se non conoscessimo la luce, l’oscurità non avrebbe nome.

 

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