Home Inchiostro Fresco - Recensioni di libri letti da Gianluigi Bodi Intervista a Paolo Colagrande, chiacchierata suona meglio.

Intervista a Paolo Colagrande, chiacchierata suona meglio.

by Gianluigi Bodi
intervista colagrande

Seduti al tavolino di un bar, novelli Gerasim e Sogliani, io e Paolo Colagrande ci troviamo a parlare di un po’ di cose. Un’esperienza così non mi ricapiterà mai.

Da dove arriva un libro come questo?

Non da un progetto, comunque non da un pensiero mirato al libro. Non bisogna pensare troppo al libro, anche se i libri li scrivi – per caso, per scelta o per mestiere o per non so bene che cosa – e quindi è naturale che il pensiero prima o poi scivoli lì. Ma se ci pensi troppo non vien fuori, o viene fuori sbagliato, un prodotto di catena, che c’entra poco con il raccontare o non ci va d’accordo. Nelle cose che facciamo tutti i giorni si muove una specie di idea prêt-à-porter, una mentalità standard, di base, che ciascuno ha costruito a modo suo, per ragioni pratiche di convivenza: un po’ ci è stata insegnata, un po’ l’abbiamo imparata per conto nostro o assorbita senza saperlo (libri, giornali, televisione..). Conosciamo strutture, moduli, modelli. Tutte cose che si possono anche usare per scrivere. Ma non è precisamente quella, l’idea che fa raccontare le cose e fa nascere i libri. Questo libro, ma più che il libro la storia, nasce in modo casuale, come è casuale che due amici seduti a un tavolo si mettano a parlare di un terzo amico che è si appena allontanato, e siccome questo terzo amico che ha avuto l’imprudenza di alzarsi dalla seggiola si porta addosso una storia interessante va a finire che i due, per ammazzare il tempo e la malinconia, cominciano a raccontarsela tra loro. Uno, Gerasim, tiene il filo del discorso perché la sa meglio, l’altro, Sogliani, fa la caccia agli errori, il controcanto polemico. Il terzo amico, Zuckermann, non è diverso da loro, è cucito con la stessa corda, ma ha un passato da prete. La storia raccontata così non può che venir fuori ammaccata, invischiata di vanvera, chiassosa, sconta tutti i vizi caratteriali-comunicativi del non-narratore: che si ferma, divaga, perde il filo, lo riprende, litiga con l’altro. Io volevo una storia così, con una trama che c’è e che corre, ma da raccontare come a me piacerebbe che mi venisse raccontata da due che non hanno pretese di narratori. La voce narrante classica, educata e protocollare, controllata e distante, nel senso di imparziale, non ha abbastanza fiato per reggere la corsa. Se la voce che racconta fosse guidata da uno schema, una pista o una struttura, la storia diventerebbe difficile da vedere o immaginare. Le digressioni, l’infilarsi più o meno a proposito, l’innesto di vaneggiamenti e di divagazioni, servono a vedere le tinte del paesaggio e a mettere in scena anche chi parla. L’entrata sul palcoscenico del cantastorie allarga la visuale e vale di più, a mio modo di vedere, di una descrizione; che, proprio perché è descrizione – in senso strettamente etimologico – sbiadisce il paesaggio, rallenta i movimenti, toglie espressione e vitalità ai corpi, alle facce, ai caratteri. Nei secoli scorsi il mondo era meno complicato di adesso, più grezzo e più lento, il tempo lo batteva il narratore. Ora tu puoi far muovere un personaggio senza darne l’identikit, rappresentandolo e basta, cioè buttandolo in scena come una volta si buttava didatticamente in acqua (dove non si tocca) chi non sapeva nuotare e che per stare a galla doveva fare uscire il carattere, muoversi come gli veniva naturale e con l’urgenza di sopravvivere. A un certo punto del romanzo, i due incompetenti narratori criticano Zuckermann: “Guarda te come si è ridotto, gli bastava poco per diventare santo, magari solo sulla carta eccetera eccetera” (non sto citando, sto sintetizzando). Credo che una frase come questa, bella o brutta, sia già più di una descrizione. Se invece tu inquadri le cose e le pennelli di aggettivi, le coccoli di avverbi o di certi codici letterari di sintesi, magari deliziosi, resti indietro, in ritardo, la tua scena perde mistero, tensione, respiro, e può morire.

Zuckermann e la Romana non sembrano essere i veri protagonisti, i veri protagonisti sono forse Gerasim e Sogliani che nel raccontare se stessi raccontano un paese, raccontano un popolo. Li ho trovati molto caratteristici.

Li hai trovati caratteristici perché li ha trovati non molto diversi da come, senza pensarci, li conosci già.

Con “Fìdeg”, otto anni fa, mi è capitato di trovarmi in Basilicata per una lettura/presentazione: un signore si alza e fa un intervento bellissimo: la storia, dice, sembra ambientata qui, e quei tizi li conosco.

Che poi in Fìdeg non c’era davvero una storia, c’erano frammenti di storie con un filo conduttore storto e sbilenco che era la vita stessa della persona che parlava di sé e di quello che gli stava intorno. In fondo, entrare in certe dinamiche marginali, dell’uomo comune e della cosiddetta provincia, vuol dire parlare del mondo in generale e di ogni sua piccola parte: il mondo non è l’eccellente metropoli che da sola ha più abitanti di tutta l’Emilia o o tutto il Veneto. La provincia è un totalità di caratteri, attributi, vizi capitali e virtù cardinali, cose belle e cose brutte, mescolate insieme in un impasto omogeneo, come dicono gli scrittori di ricette. Una specie di sinossi del pianeta, insomma l’unico possibile palcoscenico.

Si tende sempre di più a raccontare storie di grandi città, di metropoli, In realtà il raccontare arriva anche da due tizi seduti al bar, da tuo nonno che ti racconta come era una volta…

O come è adesso. Sono d’accordo. Il raccontare è lì.

Mi è piaciuto che hai parlato di raccontare e non narrare.

Il raccontare è più basso del narrare, il narrare si tiene pericolosamente in alto: l’uno può essere anche parodia dell’altro. La narrazione pretende un protagonista o dei protagonisti, tende al mito e all’eroe, che non appartengono all’umanità ma a quell’ideale di uomo che Leonardo da Vinci ha spogliato nudo e chiuso dentro a un quadrato e a un cerchio per certificare una stima di perfezione, o un’unità di misura, che però non c’è. Come dici tu, nelle Rane i protagonisti sembrano più loro due, i tizi che raccontano, ma in realtà stanno solo giocando, come i bambini. Solo giocando si può inventare l’eroe. E infatti, giocando, parlano loro stessi da eroi, per esempio parlano del Popolo Bue, cioè di tutti gli altri che non sono loro, come fa Orlando, pazzo nudo e villoso, che sale a cavallo e stermina la gente per sua rabbia: “il populazzo vile, la sciocca turba”, adesso non so perché mi è venuto in mente questo paragone, un po’ fuori misura, ma questo è il linguaggio dell’eroe. C’è lui, e molto più in basso c’è tutto il resto, la sciocca turba, che conta così poco da poter essere fatta a pezzi senza una ragione che la riguardi. Ma Orlando non si accorge di essere comico, e quindi di essere il contrario dell’eroe, o peggio la sua parodia: malgrado tutto, è solo un uomo dozzinale innamorato di una donna che non lo ricambia, lo sfugge, e anzi è già e strafidanzata con un altro ometto, più debole. E da uomo dozzinale, quando conosce il tradimento, impazzisce. Gerasim e Sogliani, nominando il popolo bue si mettono su un piedistallo instabile, precario – diciamo che stanno su una seggiola facendo finta di stare su un palco da comizi – e loro stessi se ne rendono conto, ma possono permetterselo: stanno giocando, seduti al tavolino di un bar. Non affacciati a una balaustra.

Quando alla fine Sogliani invita Zuckermann al loro tavolo sembra quasi dire torniamo tutti allo stesso livello.

Eh già, dice: adesso basta. Si smette di sparlare di Zuckermann e tutto ritorna come prima o quasi, o magari si comincia a sparlare di qualcun altro. La storia di Zuckermann può essere stata una pausa di due ore, o di un pomeriggio, passato da cialtroni, ma a un certo punto arriva la sera, e insieme alla sera un’ombra vaga e un po’ velenosa, dove abita la malinconia, ma soprattutto c’è un barista che vuol chiudere la saracinesca. Il barista in realtà non c’è, non c’è neanche il bar. Non esplicitamente, in questo romanzo.

Sogliani ci sta però nel prossimo?

Eh, Sogliani. Da un punto di vista strategico era meglio far saltar fuori prima lui, che anche su di lui ce n’è da dire, storie da matti, ma avevo fretta che venisse fuori Zuckermann.

Mi stai dicendo che c’è già un altro libro in arrivo?

(Ride): parlo parlo, senza controllo…

Questi due mi stanno raccontando la storia di Zuckermann, perché devo credere a questi due, perché la loro deve essere la pura verità?

Bella domanda. E’ quello che si chiede Sogliani, mentre ascolta Gerasim: ma come fai a sapere tutte queste cose? Beh, fa l’altro, grazie all’anedottica. Perché non sa cosa rispondere. Però, se ci pensi un attimo, da quando si diventa lettori è quasi inevitabile chiedersi: chi è che parla? E come fa a sapere queste cose? Io posso aver conosciuto personalmente Emma Bovary e averla seguita in tutti i suoi itinerari di corteggiamenti, amanti avuti e mancati, promesse disattese, aver immaginato il suo dramma intimo, fino alla tragedia, ma non posso andare tanto più in là. Come faccio a entrare nei suoi pensieri, nei suoi sogni, e contemporaneamente nella vita degli altri, del marito, del farmacista? E’ chiaro che l’autore ce la sta raccontando, se la sta inventando tutta, anche per dirci qualcosa di più, il lettore va anche oltre oltre le vicende e drammi e dietro alla storia gli si apre una prospettiva, si riflessione, di critica. Ma bisogna essere Flaubert e vivere nel suo secolo.

Siamo abituati a ben altri linguaggi.

Ma, al di là del linguaggio, sono le dinamiche del mondo che non si adattano oggi a questo tipo di narrazione, se la si riprende si riprendono solo dei cliché, qualcosa di già visto e già fatto, incastrato a martellate, oppure si può fare la parodia di quella voce. Non si può riscrivere Anna Karenina come l’aveva scritta Tolstoj (non si può riscriverla, a prescindere), non si può rifabbricare l’Isotta Fraschini (vado a caso, nella speranza che tu faccia dei bei tagli quando sbobini). Non si può pretendere di fare un’opera d’arte con le tecniche e i linguaggi, già studiati, analizzati, decodificati, non so, della pittura fiamminga: se dipingi così è solo per dimostrare che padroneggi una tecnica, e basta. Faresti qualcosa tra il fiammingo e il naif, senza essere né l’uno né l’altro, pura citazione a sproposito, prima ancora che esercizio, molto discutibile, di stile. E’ quella sensazione che fa dire ad Alfonso Berardinelli che forse non ha più senso scrivere romanzi, o se devi proprio scriverli devi inventare qualcosa di diverso, che probabilmente non si chiama più così. Un romanzo scritto oggi ma da romanziere dell’ottocento diventa un incastro di semilavorati, di moduli già visti, già fatti, che non dà più quella suggestione mitica che suscita l’invenzione originale. Come fare un mobile in stile, che non è autentico non è antico. C’è poi chi sa, ed è contento, di comprare un’imitazione, fatta magari di legno pregiatissimo, e ci spende su anche un sacco di soldi. E’ forse anche una questione di gusti, non lo so. Ognuno ha il proprio.

Senti le rane” è una boccata d’aria fresca, sembra che parli ad una parte di noi che non ha bisogno di sovrastrutture. Il ritmo, la cadenza che ti portano a leggerlo in un determinato modo, è molto “naturale”. Il leggerlo ti mette in pace, devi solo goderti la strada. Mi sono chiesto se per arrivare a questo livello di naturalezza ci sono stati problemi.

In realtà è una fatica al contrario, non per costruire ma per togliere, vorrei dire decostruire se non mi spaventasse la parola. Secondo me per scrivere, nel senso di fare della scrittura o forse della letteratura, bisogna liberarsi di tutte queste pose, di tutti gli strati che nascondono l’idea (se c’è, se non c’è non serve scrivere); toccare quello che pulsa nella testa, quello che si vuole raccontare e quello che si vuol dire. E’ uno sforzo di trasformazione, ma per gesto di levare. Una frase può venirti fuori deliziosa, leggera e leggibile, ma può non esser tua e quindi non valere niente, meglio cancellarla subito. Perché sia tua deve essere un germoglio di quella pianta lì che è nata da quel seme lì in quel posto lì, dove c’è dentro tutto e soprattutto ci sei dentro tu.

Istintiva?

Sì, ma non di getto: scavi bene e poi lasci che la materia venga fuori da sola, da dove è nata, senza filtri o depuratori, dolcificatori, salinizzatori, gasatori eccetera eccetera, e magari quella materia pretende proprio e solo una frase sgangherata. Più fedele, quindi credibile e quindi ascoltabile: è quello che dicevi tu prima: entri in una certa cadenza e sei portato a seguirla, ma proprio perché è quella cadenza lì che riconosci tua (anche se prima non lo sapevi) e che ti trasporta, ti trascina. Andare oltre le parole e ritornare al suono delle cose: ad ogni situazione corrispondono dei suoni, sono poi i suoni che nel cammino del mondo sono diventate parole. Mia figlia fino ai cinque anni le parole se le inventava, vedeva una cosa e le dava un nome, istintivamente, fidandosi del suono che questo oggetto produceva nei suoi sensi fondamentali e nella sua testa. In realtà, diventati grandi, le parole ce le abbiamo, le conosciamo, ce ne sono tantissime e quindi il compito magari è più facile. Quando Sogliani, nel romanzo, critica la Gioconda, non fa altro che seguire i suoi sensi fondamentali e scopre che dalla Gioconda esce un suono brutto: “Perché devo dire a tutti i costi che il sorriso di Monna lisa è sublime? Si chiede Sogliani” (anche qui non sto citando ma sintetizzando). “Non lo vedo sublime, lo vedo sbagliato”. Sa benissimo, Sogliani, che nel corso dei secoli sul sorriso di Monna Lisa si è scritto di più che su Leonardo stesso, per cui dire oggi che il sorriso di Monna Lisa è sbagliato (e che Leonardo si è dimenticato di buttar via il quadro, come sostengono Gerasim e Sogliani) non solo è una bestemmia, ma è come parlare un’altra lingua, sconosciuta e incomprensibile. Se però andassimo oltre, o ci fermassimo prima, a seconda della direzione, e provassimo a guardare la Gioconda come si presenta alla vista e al gusto personale (e mettiamoci pure anche un po’ di esperienza, di sapori collaudati, di genetica, di sensibilità istintiva alla bellezza o alla bruttezza) cosa penseremmo? Mi piace o non mi piace? Fai conto che non l’ha dipinta Leonardo, la vedi per la prima volta nella tua vita, l’ha dipinta il tuo vicino di pianerottolo e l’ha lasciata fuori dalla porta, tu esci dall’ascensore, la vedi e la guardi: ti piace o non ti piace?

Insomma: disimparare?

Bravo, disimparare. Dobbiamo provare a disimparare, tenere “l’imparato” nel cassetto, per emergenze burocratiche. Recuperare l’analfabetismo dello sguardo. Disimparare va bene, disimparando ritorni vergine, in qualche modo. L’unica verginità recuperabile.

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Paolo Colagrande (Piacenza, 1960) ha vinto nel 2007 il Premio Campiello Opera Prima con Fídeg, suo romanzo di esordio. Tra i suoi ultimi libri ricordiamo, Kammerspiel (2008) e Dioblú (2010).
Al momento dell’uscita di questa intervista “Senti le rane” è entrato nella cinquina finalista al premio Campiello 2015.

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