Poco prima della presentazione che sarà tenuta nella Libreria Marco Polo di Venezia, pochi minuti prima che lui e Tiziano Scarpa si siedano sull’accogliente panca rossa ci troviamo seduti ad un tavolino di un bar. Fuori, perché non fa poi così freddo. Io sono io, lui è Marco Peano. Ha appena pubblicato “L’invenzione della madre”. Il libro ha già raggiunto la terza ristampa e Peano sta macinando chilometri in giro per l’Italia per promuovere la sua creazione. Ho il tempo di osservarlo, prima di parlargli. È una fortuna, mi permette di capire con chi ho a che fare, che tipo di personalità mi troverò davanti, preparare delle strategie comunicative, tarare il mio linguaggio su di lui. Però la cosa perde subito di importanza perché vedo i suoi occhi. Gli occhi che hanno tutti i grandi scrittori. Occhi che vedono oltre.

Mi risulta difficile considerare “L’invenzione della madre” come un romanzo d’esordio. In primo luogo perché ho scoperto che hai impiegato sette anni a scriverlo, poi perché lavori come editor all’Einaudi. Per cui la prima domanda che ti voglio fare è: quanto ha influenzato il tuo lavoro di editor la tua scrittura e la storia che hai scritto?

Il tempo che ho impiegato per scrivere questo libro deriva da tre aspetti. Il primo è la difficoltà personale nell’affrontare una storia che nasce da un’esperienza autobiografica che poi ho rielaborato in forma letteraria. La difficoltà nel muovermi attraverso una storia che portava con sé del dolore. La rievocazione di tutto questo ha mosso in me dei sentimenti molto profondi e scrivere è stato faticoso anche per questo motivo. Il secondo motivo è legato direttamente alla mia professione. Nel senso che se per tutto il giorno, per tutta la settimana, tu stai a guardare la scrittura degli altri, a ragionare sulla scrittura degli altri, a proporre, a indicare ad altri scrittori soluzioni per i loro libri, quando torni a casa hai la testa piena di voci che fanno molto chiasso.

È vero che ci ho messo sette anni, ma non sono stati sette anni consecutivi, sono stati piuttosto mesi ben precisi all’interno di questo lasso di tempo. Le vacanze di Natale, ad esempio, o quelle estive. In questi due mesi mi immergevo completamente nella scrittura, durante il resto dell’anno prendevo degli appunti, ma di fatto non scrivevo.

Rispetto alla domanda sulla possibile influenza del mio lavoro sulla voce di questo libro direi che inevitabilmente c’è stata una certa influenza, ma contemporaneamente, e questa è la terza ragione per cui ci ho messo così tanto tempo a scrivere il libro, richiedi una maggior attenzione a te stesso, maggior controllo, perché rivedi la pagina, perché non sei mai soddisfatto. Poi ovviamente nessun medico si opera da solo e quindi anche io ho avuto bisogno di un editor per rivedere alcune cose (N.d.r. L’editor in questione è Nicola Lagioia).

Immagino che poi leggendo centinaia di manoscritti di scrittori esordienti tu riesca anche a capire quali siano gli errori più comuni nella scrittura.

Sai, alla fine uno impara di più dai brutti libri che dai libri belli. I libri belli te li godi, sei felice, quando leggi libri brutti capisci invece cosa non ti interessa fare. Non ho la presunzione di pensare che questo sia un libro privo di errori, però diciamo che alcuni ragionamenti che ho fatto nel corso della scrittura derivano dai ragionamenti che ho fatto nello svolgimento del mio lavoro.

In molte recensioni e interviste che ho letto negli ultimi giorni ho notato che spesso si punta sul concetto di «invenzione» della madre. Io però ho apprezzato il procedimento di costruzione del dolore. Questo processo di lenta costruzione di questa massa pulsante che ad un certo punto si radica in Mattia e non viene estirpato nemmeno dalla morte della madre.

Più che altro c’era la necessità di costruire un percorso interno in un libro in cui la trama è quasi inesistente. La fine è nota da subito, si sa che la madre di Mattia muore. L’unico percorso è quello della vita interiore del protagonista che da un lato si prepara a congedarsi dalla madre, dall’altro si attacca ostinatamente con i denti a quello che rimane, succhiando tutto quello che ha a disposizione ed il dolore è qualcosa che prende molte forme. Il dolore per la morte di una persona così vicina come la madre è qualcosa che anche a distanza di anni non sparisce, cambia forma, cambia nome. Attraversa nel romanzo le forme della rabbia, della rassegnazione, della depressione e quindi è qualcosa di inestirpabile e forse quello che hai individuato tu è semplicemente il percorso dentro il quale si muove Mattia.

Guardando agli aspetti più tecnici. C’è questa terza persona non completamente onnisciente e poi c’è quell’uso delle parentesi che io ho interpretato un po’ come un ulteriore livello di narrazione. Qualcuno che stava ancora più su del narratore onnisciente e che da lì sopra («un demiurgo» aggiunge Peano) commentava e giudicava.

Come hai detto giustamente tu è un narratore in terza persona che però si permette il lusso di entrare e uscire dalla testa del protagonista. Le parentesi sono un’invasione di campo dentro la quale ci poteva stare un terzo piano di lettura. A scuola ci insegnano che quello che scrivi dentro le parentesi è meno importante, che puoi anche fare a meno di scriverlo. In questo caso ho fatto l’esperimento di togliere le parentesi dal libro, la storia funzionava comunque ma era come se mancasse una serie di collegamenti sotterranei che tenevano legato il tutto.

Una sorta di voce fuori campo.

Sì, non ci avevo pensato ma è una sorta di livello in più, una voce che sta tra il narratore, il lettore e il protagonista.

Mattia è morbosamente attaccato ad una serie di videocassette che sembrano essere usate come una sorta di scudo, un modo per tenere in pausa la sua vita come poi in effetti avviene durante tutta la malattia.

Certo, è proprio un feticcio. Uno degli espedienti che lui si inventa per prepararsi all’idea che poi sua madre non ci sarà più. Ad un certo punto nel romanzo ragiono sulla differenza che c’è tra la videocassetta e il DVD, dico che le videocassette sembrano molto più tridimensionali rispetto ad un DVD che sembra bidimensionale anche se poi di fatto è tridimensionale anche quello. Le videocassette sono meccaniche, sono organismi, sono un qualcosa che nella follia ossessiva eppure lucidissima di Mattia gli permettono di avere a disposizione un supporto che simula la vita e in cui può ritrovare tracce della madre. L’idea che hai avuto tu dello scudo effettivamente è vera, è qualcosa che fa in solitudine, quasi un gesto masturbatorio, una cosa morbosa. Chiude le serrande, aspetta che non ci sia nessuno in negozio, si mette lì. Del resto quando noi entriamo in un cinema e ci mettiamo a guardare un film siamo soltanto occhio, siamo spettatori e il corpo non esiste più. E visto che questo è un romanzo in cui il corpo c’entra eccome il fatto di trovarsi a contemplare il filmato di un corpo diventa quasi una forma di esorcismo per Mattia.

Ognuno vive il dolore in modo diverso, è una delle cose più personali che abbiamo. Nel tuo libro, tra le varie funzioni che ha il dolore c’è quella di tenere le persone care attorno a Mattia unite e in lotta contro il male comune. Un aspetto che viene accentuato nel momento in cui Mattia e la fidanzata si lasciano dopo che la madre è morta.

Io faccio spesso un riferimento alla terminologia bellica che utilizziamo quando parliamo delle malattie: sconfiggere, debellare, lotta, guerra. Senza renderci conto di fatto che stiamo parlando sempre della persona che amiamo. Qualcuno ha detto che di una persona che baciamo dovremmo amare anche le sue carie. Se indirizziamo l’odio contro la malattia, allargando il campo è come se indirizzassimo l’odio anche nei confronti della persona malata. E di fatto quello che mi interessava nel percorso esistenziale di Mattia nel momento in cui mi sono ritrovato a scrivere il romanzo era di provare a tracciare una crescita in cui crescere significa scegliere. Mattia è un personaggio molto problematico dal punto di vista delle scelte, rimane piantato nella sua post adolescenza, non sceglie fino a quando dovrà scegliere anche il modo migliore per diventare grande. Il rapporto che aveva con la sua ragazza era di fatto un rapporto del passato a cui lui rimaneva comunque attaccato e, come succede con le videocassette, ad un certo punto se ne disfa.

Lo scrittore solitamente ha la facoltà e ha il potere di rimettere le cose a posto. Sei convito di essere riuscito a rimettere le cose un po’ a posto?

Più che altro lo scrittore ha modo di mettere un po’ di ordine nel caos. L’evento della morte della madre, a qualunque età accada, è qualcosa di molto importante e molto forte rispetto al quale, in un ambiente di laicità, ti sembra di non avere soluzione, giustificazione. La scrittura è uno strumento fortissimo per provare a mettere in ordine le cose. Non so se ho messo ordine in questa storia che in parte è anche la storia della mia vita, so soltanto che la complessità e la fatica che c’è stata per arrivare a questa forma mi ha permesso di guardarla da fuori. Molte cose che sono successe nella mia vita le sto capendo adesso che il libro è uscito. Non le stavo capendo mentre scrivevo perché stavo male, non le stavo capendo dopo che l’avevo scritto perché stavo lavorando al libro, adesso incomincio a vederle in un certo modo.

Dentro al libro c’è una percentuale di finzione molto forte, molte cose non sono mai accadute, però alla fine è come se avessi consegnato alla storia una versione di me con la quale posso scendere a patti con tranquillità, con la quale essere pacificato.

Commenti a questo post

Articoli simili

15 comments

Leave a Comment