Il mondo è tutto giù di fronte a me.
Puzzo proviene dalle case crollate, quella della signora che gestiva un negozietto a due passi da me ed è morta nel crollo, quella del fornaio con le ceste di pane schiacciate da travi, là ci stava una piccola gelateria in cui quando ero bambino spendevo le poche centinaia di lire che avevo in tasca; e fumo, in mezzo ai coppi che si sono messi di traverso a formare piccole chiese gotiche tra un mattone e l’altro, capanni; un tanfo insopportabile. Quando qualcosa del genere arriva a te e ti s’infila nelle narici, impossibile che poi ti lasci. Impossibile che si levi davvero: scappi e ti lavi ma ti entra nella memoria, anche, e da lì non va più. Mi capitò una volta, in un’altra vita, di lavare una vasca di silicone, coperto da una salopette e una casacca, guanti in nitrile, occhiali e mascherina; di staccare a forza pezzi di silicone incrostati sul ferro del macchinario, vicino agli ugelli che fino al giorno prima avevano spruzzato a getto continuo; i guanti si laceravano mentre Rembò mi diceva: Muoviti, il resto della fabbrica formicolava, e allora via a mani nude; di usare una spazzola in ferro per eliminare tutto l’eliminabile, raschiare il raschiabile. Il silicone che avevo tolto, marcio, l’avevo avvolto in un lenzuolo e chiamato il cadavere, poi buttato in un contenitore dell’indifferenziata; quell’odore non mi aveva abbandonato per giorni nonostante le docce.
Ma era un’altra vita; un altro io. Mi allontanai canticchiando un motivo qualsiasi, buttando via i guanti: erano i tempi in cui le sofferenze erano come la candeggina, che irrita gli occhi e poi svanisce. Da quando tutto è esploso, tutto è cambiato. Da quando tutto è esploso, due torme di lupi si guardano dall’alto delle rovine: le zampe sono pronte a scattare: per ora si trattengono. Topi passano squittendo vicino ai loro artigli, intrecciando traiettorie fitte e prevedibili, ma loro non li vedono: prima che ci sia necessità di procurarsi cibo c’è la sopravvivenza, e anche questa a sua volta è composta di fasi. Poi ci sarà la zuffa, ora la minaccia; e se zuffa deve essere, prima si confronteranno i nervi. Gli dei se ne sono andati da tempo, lasciando quello che avevano dichiarato nuovo Olimpo a quest’aria che sa solo di fumi e carni. Sanno l’arte della lotta, i lupi: son disperati, e i disperati sanno come si sopravvive. Io sono uno di questi.
Abbiamo casse toraciche strette, respiri stretti. Qualcuno morirà, e quando è pronto a morire inizia a guardarsi intorno per evitare che lo notiamo. Non ci è rimasto orizzonte morale, quello che mi faceva dire a mia madre: non sparargli, se ne andrà. L’orizzonte morale, in tempi di sopravvivenza, è un incidente, inesistente – o forse enormemente ristretto. Mangerei mai uno dei miei? Forse sì, forse no. Tradirei mai uno dei miei? Forse sì, forse no. Sarei capace di passare all’altra parte? Sì.
Spero di non trovarmi in una circostanza come quella; quella di dover passare dall’altra parte. Già mi è capitato nel tempo di avere a che fare con uno specchietto in cui mi sono involontariamente riflesso; già mi è capitato nel tempo di vedermi e dire Mio Dio. Non capiterà di nuovo. Non voglio che capiti di nuovo, Dio. Non farmi rivedere il mio volto, Dio. Te lo chiede il tuo servo. Preferisco rimanere nella mia mediocrità salva, a bagnarti i piedi con olio di nardo, che affogare trascinato giù dai tuoi mulinelli.
Ci sono momenti, in questo angolo di mondo – qualche chilometro quadrato ben transennato che una volta aveva un nome, IO, ma il cartello è stato divelto e scaraventato lontano da una bomba o qualcosa – in cui senti il profondo sospiro del cosmo; momenti in cui quel rumore vago sono gli scarafaggi che ti camminano tra i piedi. Quando sei disperato, la differenza tra il momento uno e il momento due non ha alcun rilievo. Scarafaggi, cosmo: i primi li mangi, se serve, il secondo no. Io preferisco un filo il secondo, ma sono un sentimentale; e quando si tratterà di aspettarmi so che il branco non esiterà.
Nel locale non c’era nessuno. Un’icona ortodossa ballava sopra il bancone, illuminata da lucine a intermittenza; la Madonna reggeva il Bambino dalle vesti dorate. Forse non era nemmeno una copia: era un periodo strano, si accettavano come pagamento le cose più bizzarre. Il barista, un uomo che aveva una svastica tatuata sul petto e due lunghissimi baffi a manubrio, largo e alto, massiccio ma con le spalle spioventi, non si sarebbe probabilmente accorto se fosse entrato qualche avventore: era troppo impegnato ad accendere e spegnere una luce per vedere dove fosse il contatto, spostare il filo della prolunga per vedere se il problema stesse in quello. C’erano un sacco di neon, rossi e blu; l’insegna stessa era un marinaio che si muoveva, ponendo sul tavolo e portando alla bocca un boccale. Ero conosciuto, lì dentro; mi aveva lasciato la bottiglia. Mi versai un paio di bicchieri di vermouth, rapidamente. La porta si aprì, entrò Zagor; si piazzò a gambe aperte nel locale, con la sua borsetta di pelle a tracolla, padrone di uno spettacolo che era solo mio. Mi vide. Si assestò la giacca, che già era a posto; tirò fuori la sedia che mi stava a fianco, si versò un bicchiere di vermouth nel mio, lo bevve.
“Chiamato” fece con voce gutturale; ruttò. Gli piaceva sempre, quello scherzo. “Che faccia, cazzo. Che ti serve?”.
“Ho bisogno di calmarmi”. Indossava una maglietta di Goodman che dice I don’t roll on Shabbas; sopra una giacchetta da poco prezzo, una catenina, un paio di jeans. Tipico suo, pensai: il Dottore – così lo chiamavano – aveva un modo tutto suo di vivere la guerra. Credo colse quello che pensavo.
“L’eleganza, in tutte le occasioni”.
“Dove l’hai presa, quella?”. Gli indicai la maglia.
“Ti piace?”.
“Sì”.
“Vuoi fare a cambio?”.
“No! In che senso?”.
“Mi dai la tua e ti do la mia”. Fece per levarsela, la giacca ancora indosso; lo fece, ne sono certo, anche perché vedessi quel corpo da lottatore di strada. Sull’ombelico aveva tatuata la scritta MISS U. Nulla di romantico: la U di un colore blu elettrico stava per Union Jack, una delle droghe più usate al tempo. Lo fermai. Mi guardai la maglia. Manco sapevo cosa avessi su; era quella di New York, col cuore. Ricordai vagamente di averla indossata prima di scendere all’appuntamento. Non la stiravo da anni.
“Lascia stare. Cosa hai dietro?”.
“E tu cosa hai preso?” disse, riinfilandosi la maglia. “Un soffio?”.
“No, niente. Ho solo bisogno di calmarmi”. Sentivo suoni strani, soprattutto quando mi coricavo per provare a dormire, e non sapevo se fossero veri o falsi. Come: rumore di vetri che vanno in frantumi, o: voci. Fossero stati veri sarebbero stati preoccupanti; fossero stati falsi sarebbero stati un problema.
Non era la prima volta.
“Continui a lavorare in quel posto?”
“Sì. Manchi a tutti”.
“Vai a cagare. Allora: vuoi qualcosa?”.
“Cos’hai?”.
Si guardò intorno, più per abitudine che altro, ma il barista era scomparso in cucina bestemmiando; aprì la borsa. Una borsetta morbida di pelle, col manico rigido in osso; per questo forse lo chiamavano Dottore.
“Tieni”. Mi passò varie boccette di vari colori: rossa con pillole bianche, blu con pillole azzurre, arancio con pillole arancioni. Una mi colpì, in particolare: in plastica gialla.
“Quelle, non più di due per volta”.
“Sennò?”.
Tracciò nell’aria davanti a sé, con due dita, una croce.
Le soppesai.
“Senti: vuoi del Viagra? Un paio di pastiglie, così, in regalo”.
“E che me ne faccio?”.
“Di questi tempi aiuta”.
Suonò una campana, fuori (dentro?). Sembrava il richiamo del Giudizio. Quanti diavoli dal corpo spinoso e dalla spina dorsale incallita ci stavano aspettando, confidando nel nostro sonno, issati sulle mura della cattedrale? Quanti lupi dal manto bianco stavano attendendo che scopassimo per azzannarci direttamente sui letti?
Mi sembrò, tenendo il boccettino giallo in mano, che il problema non solo non si sminuisse, ma anzi s’acuisse; che i denti brillassero di più, nel buio. Una guerra di trincea tra lupi; chi prende la pastiglia sarà quello che cederà per primo.
“Pensi ancora ai lupi?”.
“Sempre”.
“Lo sai che sono una fissazione tua, vero?”.
“Lo so”.
Vidi per terra un’ombra; diedi un colpo lieve con la suola, presi dal pavimento lo scarafaggio che zompettava impazzito, glielo mostrai.
“Anche questo è falso?”.
“Cazzo, no. Buttalo”.
Lo lanciai via; gli riconsegnai tutto.
“Nulla?”.
“Nulla”.
“Merda. Un giro a vuoto”.
“Tieni”. Gli diedi cinquanta euro. Li prese, li guardò come se fossero un corpo estraneo strappato dal suo corpo; se li infilò in tasca. Mi allungò due pastiglie di Viagra in un portapillole della Madonna di Pompei.
“Che ci faccio?”.
“Prenditele e stattelo a guardare. Aiuta, contemplarsi il cazzo. Io lo faccio”.
“Contemplarselo?”.
“Sì. Giochi con l’acquetta, te la tiri su. Non dobbiamo mai dimenticarci due cose, nella vita”.
Non gli chiesi: quali. Continuò, forse deluso.
“Prima. Il nome che abbiamo. Seconda. L’età che abbiamo. Se perdi la prima, perdi identità. Se perdi la seconda, perdi consistenza. Guardati il cazzo”. Uscì dal locale; il barista chinando la testa arrivò dalla cucina, voltandosi intorno.
“C’era qualcuno?” fece.
Pagai e uscii; casa mia non era lontana, misurai ogni passo per evitare che le macchine m’arrotassero.
Quando arrivai mi buttai sul letto, mi sfilai la maglia, la guardai; realizzai che ne avrei potuta avere un’altra che diceva I don’t roll on Shabbas. Sarebbe stato un affare.
Sul piatto avevo lasciato un album dei Led Zeppelin; mi aiutava a coprire il suono di vetri e voci.
[Workin’ from seven to eleven every night].
Mi sfilai gli slip, abbassai lo sguardo; non trovai nulla di così interessante.
Restai sveglio per le successive tre ore. Le luci passavano e ripassavano, da fuori, che fossero fari delle auto che sbattevano contro le grate alle finestre o ronde che s’aggiravano per la città controllando non ci fossero razzie; ma non potevo chiudere le persiane: bisogna stare molto calmi, a volte, e cauti – evitare che le cose di fuori scivolino dentro. Mi accesi una sigaretta; rimisi la stessa canzone.
[Workin’ from seven to eleven every night].
Una volta mi avevano detto di una donna che aveva evitato di uscire a causa della pioggia per diversi giorni; aveva iniziato a piovere di dentro, riempiendosi finché l’acqua non le aveva cominciato a gocciolare dalla vagina, dall’ano, poi dalla bocca, le orecchie, gli occhi. Quando si arriva agli occhi, di solito, non si è all’inizio ma alla fine: l’acqua è già tutta dentro. Me l’aveva detto uno scrittore, quando parli con loro non sai mai cosa…
Bussarono alla porta. Mi infilai i soli slip, andai a controllare allo spioncino, tornai indietro e infilai anche la maglia; aprii.
Era, nel buio, una ragazza dalle fattezze giapponesi. Indossava un paio di cuffiette bianche, attaccate a un cellulare che portava in mano e le rischiarava il volto. Era carina: sul metro e settanta, forse, magra e con un seno largo; vestita con un abito bianco con striature azzurre, una cintura a vita alta rosa; molto carina.
“Tutto a posto” disse, portandosi il piccolo microfono alla bocca.
“Tutto a posto cosa?”.
“Non mi fai entrare?”.
Era notte, ero solo; fuori le macchine continuavano a passare, e avrebbero continuato a farlo senza di me. I lupi avrebbero ringhiato, anche, con e senza. Non c’era ragione per non farla entrare. Le mostrai l’interno con la mano; appoggiò a una sedia il trench che portava al braccio, inutile con quel caldo. Era un monolocale, casa, non che ci fosse tanto da vedere; la confusione la limitavo per quanto mi fosse funzionale a sopravvivere.
“Hai un bell’appartamento”.
“Non è vero”.
“Cose che si dicono”. Si fermò davanti alla libreria; prese un volumetto di Yasunari Kawabata, mezzo rovinato dall’uso, lo avevo letto almeno sette volte; lo sfogliò senza fermarsi su alcuna pagina; “Posso?” disse, e senza attendere risposte se lo infilò in borsetta.
“Cosa vuol dire Tutto a posto?”
“Devo comunicare alle persone per cui lavoro se il clima è in ordine; se ho la percezione che il cliente possa essere problematico”.
“Cliente?”.
Lo sguardo fu eloquente.
“Non ti ho chiamato”, le dissi.
“Consideralo un regalo”.
Nel mondo dei lupi i regali sono rischiosi. “Regalo di chi?”.
“Ha chiesto di restare anonimo”.
“Se non mi dici di chi, credo di non poterti ospitare”.
“Non mi trovi di tuo gradimento?”.
Lo disse senza bronci. Non avevo mai conosciuto, nell’epoca del pre-guerra, donne che potessero dire cose del genere senza bronci. La valutazione era un fatto fondamentale dell’interazione uomo-donna, e pure – devo dire – l’interazione uomo-uomo; lo sguardo indiscreto che vagliasse porzioni, proporzioni, rapporti tra pelle coperta e scoperta, plasticità; direi che intorno alle reciproche valutazioni gravitavano tutte le dinamiche sociali.
“Sì, sei di mio gradimento. Eccome”, sospirai.
“Bene. Mi aiuti a togliere il vestito?”.
Non ne aveva alcun bisogno, evidentemente; era parte dell’interazione uomo-donna, questa sì. Era come se si fosse spogliata di un ruolo, prima, e poi se ne fosse rivestita. Curioso di come a volte ci spogliamo vestendoci e ci vestiamo spogliandoci.
Rimase presto in mutandine e canotta. La canotta non aveva reggiseni sotto; sentii il cazzo farsi turgido. Erano anni che non andavo a letto con nessuna; la mia attività masturbatoria serviva ormai unicamente a gestire il calore. Un serbatoio che si riempia e si svuoti: quello. In quegli anni, anche gestire l’attività masturbatoria, portandola al limite, mi era servito a mantenere elevata la temperatura, tenere svegli i sensi. Lavorare nella fabbrica in cui lavoravo, timbrando alle sei e stimbrando alle diciassette con un’ora di pausa pranzo a leggere Kawabata, sentendo ogni movimento della parte centrale del corpo, ogni sfregamento di tessuto, mi aveva tenuto in vita. Era importante prendersi cura della propria pelle.
[Workin’ from seven to eleven every night].
“Sotto la pelle siamo tutti dello stesso dolore”, le dissi.
Mi guardò in faccia. “Hm. Non credo. Scopiamo?”, fece, sedendosi sul letto.
Mi chiamò a sé; mi fece scorrere verso il basso gli slip; diede un’occhiata al contenuto. Mi tolsi anche la maglia, la buttai da qualche parte.
“Spegni la luce”, fece, prima di rimanere nuda anche lei.
“Perché?”.
“Spegni la luce e sarò gentile”.
Andai all’interruttore, che stava sulla parete opposta; spensi. Si spogliò in silenzio; appoggiò il telefono e gli occhiali sul comodino. Sentii il frusciare dei vestiti a terra, ai piedi del letto; trovai eccitante il fatto che non li componesse su una sedia.
“Fai piano, mi raccomando. Il fatto che sia una puttana non vuol dire che non debba fare piano”.
“D’accordo”.
“E non guardarmi”.
“D’accordo”.
Accostai il mio sesso al suo. Era caldo; avevo bisogno del suo caldo. Nella terra dei lupi il caldo è quasi sempre bene. Ci sono stati dei lupi che sono morti suggendo il proprio stesso sangue, mordendosi le membra in cerca di calore; riempiendosi la bocca di ferro e globuli. Ma qui non eravamo fuori, ma nel mio monolocale; lei non doveva aver paura perché tutto era tranquillo; io non dovevo aver paura perché il suo pelo di lupo non pareva bianco, non pareva di quei lupi che vengono da fuori e ti occupano il territorio a rischio di farsi uccidere.
Passò un’auto, le rischiarò un istante la pelle; vidi. “Cos’è quello?”.
“Cosa?”.
Non ero ancora entrato; mi sottrassi. “Cos’hai sulla pancia?”.
“Hai guardato”.
“Non ho potuto fare a meno. I fari dell’auto… Cos’hai?”.
“Non dovevi guardare” disse. Non era fredda; era triste.
“Che ti è successo?”.
“Nulla”.
Accesi la luce; si coprì d’istinto. Le aprii le mani, i gomiti coi quali si copriva. Aveva una lacerazione lunga circa un mio avambraccio, che le saliva da poco sopra i peli pubici fin quasi al seno.
“Hai intenzione di rifiutarmi?”
“Come?”.
“È un tuo diritto. Sarai rimborsato”.
“Non ti ho pagato”.
“Non fa parte della transazione, questo. Nel momento in cui l’articolo viene acquistato…” si mise a recitare. Sembrava un’agente che si metta a declinare le caratteristiche di un prodotto, e le avvertenze.
“Non ho intenzione di… trattarti come della merce”.
“Fai male”.
Guardai a lungo la ferita; avvicinai il volto. Le labbra erano sdrucite, come se anche avvicinandole perfettamente tra loro non potessero più combaciare. Accostai un dito allo sbrego nel punto inferiore; chiusi gli occhi e lo feci scorrere. La sentii sospirare.
“Che fai?”.
“Godo del mio servizio”. Il dito passava ruvido su tutta la ferita; percorrendola attentamente si sentiva tutto.
Mi sdraiai accanto a lei.
“Sei sicuro che non vuoi che ti faccia venire?”.
Mi tornò in mente Zagor. Andai alle braghe; estrassi il portapillole con la Madonna di Pompei. Ingoiai una pillola blu; mi sdraiai di nuovo sul letto.
“Ci vorrà mezz’ora perché faccia effetto. Ti va di raccontarmi una cosa tua?” le dissi.
“Va bene”, fece. “Ne hai bisogno?”.
Non le risposi.
“Sette anni fa lavoravo come donna di servizio presso un dirigente scolastico, a Wakayama. Avevo diciotto anni; dovevo accompagnare le tre figlie del dirigente e di sua moglie a scuola, occuparmi delle pulizie, tenerle impegnate durante la giornata”.
“Un dirigente?”.
“Sì. Te l’ho detto. Un dirigente scolastico”.
Era brava a raccontare. Mi concentrai su quello che diceva, controllando, ogni tanto, gli afflussi di sangue. “Hmmm”.
“Era un uomo molto ligio alle regole, lui, estremamente pratico; non avrebbe esitato a schiaffeggiare un sottoposto se avesse mancato di rispetto a lui o all’etichetta. Vestiva completi occidentali, spesso italiani: Armani, Versace, Prada, Ferrè. Le cravatte, la moglie le ordinava direttamente da Marinella; arrivava un pacco ogni due mesi. Lei era nevrotica, instabile. Cercava di essere moderna, ma era come quelle persone che hanno un occhio al presente e uno al passato e restano incarcerate a, che ne so, ieri. Aveva anche questa specie di eco: era capace di risponderti oggi a una cosa che le avevi detto il giorno prima, come se le sue parole ci avessero messo un giorno a giungere, essere decodificate, ripartire”.
“Parli strano”.
“Sei sicuro che io sia qui?”
“Non lo so”.
“Forse sono solo una proiezione della tua mente, no?”
“Forse”.
“Lo vuoi sapere?”
“Continua. Aspetta. Ci sono lupi in questa storia?”.
“Lupi? No”.
“Continua”.
“Io ero una bella ragazza”.
“Lo sei anche ora”.
“Le figlie le accompagnavo sempre a un parco vicino al castello di Wakayama, le lasciavo correre quando sapevo che il padre non sarebbe passato di lì; trascorrevo tutto il tempo con loro, ogni tanto leggevo loro qualche storia; la più piccola mi chiamava mamma”.
Si interruppe; prese alla cieca gli occhiali dal comodino, li infilò.
“Poi?”.
“Un giorno il dirigente disse di volermi accompagnare al parco. Tirò fuori una scusa – la ricordo, ma se non ti dispiace preferisco non ripeterla – e lasciò la macchina in garage. Camminava mezzo metro davanti a me; un uomo alto, benvoluto da tutti in una città che stava già declinando. Fu stranamente cortese, quel giorno, come può esserlo un uomo di quella formazione ed estrazione sociale: mi offrì da bere, visto che dovevamo camminare sotto il sole di luglio per almeno tre chilometri; un paio di volte mi aspettò perché mi si era slegata una scarpa. Quando arrivammo, discorrendo dell’educazione delle sue figlie, mi accorsi che d’improvviso cambiò tono; tornò algido come al solito, con una punta di cattiveria – come se mi fossi presa delle libertà. Mi accorsi che mentre parlava guardava di continuo una coppia di studenti che prendeva il sole e leggeva. Come si dice? Prendeva il sole o prendevano?”.
“Non lo so”.
“A un tratto, visto che non se ne andavano, mi disse Dammi le mutandine”.
“Così?”.
“Sì. Io non sapevo cosa fare. Ero intimidita. Era un uomo molto alto, dai lineamenti marcati, con i baffi, forse bello; non so come spiegartelo, ma ogni cosa nel suo atteggiamento denotava potere. Anche come inarcava la spina dorsale; la curvatura della sua spina dorsale era perfetta. Il midollo spinale non poteva che essere comodissimo. Mi sfilai le mutandine e gliele porsi; sono convinta che non fu un caso, quella lunga camminata”.
Il sangue mi confluiva piano nei corpi cavernosi. Ero troppo curioso di cosa fosse successo per precorrere i tempi. I lupi non precorrono i tempi; o forse sì. “E dopo?”.
“La cicatrice viene da lì; la sera dopo abbandonai la casa e due settimane dopo, quando mi dimisero, il Giappone”.
“E sei finita qui”.
“Nel tuo letto. Sì. Strano come si formano le mappe, no?”
Le pillole cominciavano a fare effetto. Guardai verso il basso, e così lei; vedemmo il pene torreggiare. Era qualcosa che dava il suo peso, visto così; una certa tranquillità. Il sesso eretto è tranquillizzante, se vuoi. Denota potere.
“Tocca a te”, disse; e la voce già prendeva un ritmo lento.
Io rimasi a guardarlo, che non era mai stato così regale. Lei, accanto a me, regolarizzò il suo respiro; ogni tanto le macchine le rischiaravano la ferita, che a saper leggere con le dita, chissà che messaggio avrebbe dato.
Il tempo passava.
“Non mi dici nulla?” chiese ancora. Si mise le braccia dietro la testa, e così io; restammo lì in silenzio, misurando quel silenzio che per la prima volta si allargava.
“Chissà se è mai stato felice, Kurt Cobain” dissi infine, sperando che le parole arrivassero all’aria in sincrono; attendendo che i primi fumi si levassero nel giorno che veniva.
Ivano Porpora è nato nel 1976 a Viadana, in provincia di Mantova. Ha pubblicato il romanzo La conservazione metodica del dolore (Einaudi 2012), le poesie Parole d’amore che moriranno quando morirai (Miraggi 2016), la favola per bambini La vera storia del leone Gedeone (Corrimano 2016), le fiabe per adulti Fiabe così belle che non immaginerete mai (LiberAria 2017) e il romanzo Nudi come siamo stati (Marsilio 2017). Tiene corsi di scrittura in giro per l’Italia e pubblica una newsletter gratuita di scrittura.