Home Inchiostro - Recensioni di libri indipendenti e non. Il caso Franz Stangl – Dominique Sigaud

Paratesto:
Scendo dal treno e Lars mi si para davanti. Pare che due settimane di vacanze gli abbiano messo nostaligia di me. Contrariamente al suo solito mi viene a prendere quasi dentro al vagone.
Che c’è? mi chiede. Pare che hai pianto.
Ho pianto, gli rispondo.
Eh, non esagerare, sono finite le vacanze, non è mica morto nessuno.
Sarebbe anche morto qualcuno, ma non è per questo che ho pianto.
Ah no? E perché allora?
Empatia, ho pianto per empatia.

Testo:
Empatia. Mi hanno sempre detto che ne ho troppa. E forse è vero, ma dopo tutti questi anni non ho ancora capito se è un bene o un male. Anni fa, quando pensavo che sarei diventato un professore universitario, qualcuno mi disse che sarei stato un bravo insegnante, perché ero dotato di molta empatia. Poi le cose non sono andate come previsto, ma l’empatia è rimasta.
Ed è a causa di questa famigerata empatia che c’ho messo una vita a leggere questo libro.”Il caso Franz Stangl” scritto dalla giornalista francese DOminique Sigaud è un macigno sullo stomaco. Riuscivo a leggerne poche pagine al giorno perché poi, preso dai  fatti narrati, iniziavo ad immaginare come doveva essere.
Parliamo di Germania nazista, di olocausto, di shoah e parliamo di Stangl, direttore del campo di concentramento di Treblika in cui hanno perso la vita 900 mila persone. NOVECENTOMILA PERSONE.
Il libro è in perenne equilibro tra il saggio e la narrativa, tra il diario intimo della scrittrice e il reportage giornalistico. Ma aldilà della contaminazione di generi che può interessare da un punto di vista strettamente linguistico e stilisitico, ciò che mi ha colpito è stato altro.
Mi ha colpito il fatto che la Sigaud pare portare sulle spalle la colpa di quell’orrore. E forse, ha ragione lei, in quanto esseri umani dovremmo tutti fare i conti con quanto è successo durante la seconda guerra mondiale. Ovviamente poi si rischia di essere tacciati di qualunquismo, buonismo o qualsiasi altro ismo denigratorio. Il fatto è solo uno, Sigaud racconta la storia di Franz Stangl, direttore di Treblinka, un uomo che fino alla fine ha cercato di rifiutare la colpa. Diceva, lui, di essere un puro amministrativo, di essere stato mandato lì a fare ciò che faceva perché era bravo ad organizzare. Quindi Treblinka uccideva a pieno ritmo perché lui era bravo ad organizzare la vita del campo di concentramento. Era sostituibile, dice lui.
Basta questo per sgravarsi della colpa, basta dire che se non c’ero io c’era comunque un altro?
Questo è un libro che andrebbe letto per vari motivi. Perché è scritto bene ed è un ottimo libro. Per rispetto delle vittime e della storia, ma anche, e dico io soprattutto, perché insegna a non dimenticare, insegna a non far dire: non è colpa mia.

Coordinate:

Clichy è una casa editrice che dovrebbero conoscere tutti. Hanno un catalogo davvero interessante, completamente fuori dalla logica del banale e del pubblichiamo cose che vendono. Certo, se vendono è meglio per loro e per noi. Il fattò è che le scelte editoriali sono coraggiose e arricchiscono il nostro animo. Inoltre, la qualità del cartaceo, la scelta dei materiali, la grafica utilizzata per la copertina mi sembrano dare un tocco ancora più personale e di valore a quello che è il nostro amato oggetto libro.

Dominique Sigaud, nata a Parigi nel 1959, è giornalista e autrice di romanzi e saggi. Tra il 1984 e il 1996 ha percorso in lungo e in largo l’Africa, di cui ha raccontato molte storie su giornali e riviste di tutto il mondo, fino ad aggiudicarsi il «Prix des Femmes Journalistes» per un suo articolo sul massacro del Rwanda. Una delle tematiche a cui si è dedicata più assiduamente è la Shoah. Tra i suoi libri più celebri: L’hypothèse du desert (1996) e Conte d’exploitation (2011).

La traduzione è di Francesca Novajra. Sono due le cose che mi sento di dire. La prima è un ringraziamento. Credo che abbia fatto un bel lavoro di traduzione considerando che ignorando completamente tutto quanto faceva da corollario sono riuscito a godere un’esperienza piena. E questo credo dipenda anche dal fatto che la lettura era lineare, senza sbavature, senza l’impressione di leggere un testo in traduzione. La seconda cosa è più una domanda. Quanto è stato difficile “vivere” il testo, considerando ciò di cui parla?

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