Colapesce fa un nuovo (per me bellissimo) disco, Infedele, tira fuori un altro (per me bellissimo) video, firmato Ground’s Oranges, ed eccoci di nuovo qua, che dopo il concerto “mi sento totale”. Grande show l’altra sera, mercoledì 24 gennaio 2018, al teatro Odeon di Catania, fin dall’apertura con la voce e la chitarra di Carlo Barbagallo. E poi via con la band di Colapesce (bravissimi): lo spettacolo comincia con un pezzone di grande impatto, rock-elettronico-qualcosa, e va avanti tra vecchie e nuove canzoni, secchiate di intimismo ed esplosioni di chitarrone/sassofoni/tastieroni più una cover di Battiato che ci ha fatto venire i lucciconi agli occhi. In genere a questa sorta di riunioni ricreativo-concertistiche trovi l’intellighenzia carbonara dei duri e puri, quelli per cui la musica è una questione di vita o di morte. Stan tutti lì pronti a censurare chiunque di loro abbia tradito la causa e avuto la disgrazia di vendere mezzo disco. Tanti piccoli Savonarola cresciuti a pane e rock anni ’90, farcito con nichilismo q.b. e con l’ipocrisia maledettista di quei poseur che predicano bene e campano con i soldi di mamma e papà. Quant’è ridicolo l’odio sia di questi attempati, avviliti censori sia dei loro giovini epigoni animati dagli astratti furori. Questi ultimi hanno una possibilità di salvezza, ma se butteranno giù la pillola sbagliata rimarranno imprigionati nell’incubo, nel rancore, costretti a leggere libri che vogliono cambiare il mondo e musica che vuole migliorarlo. Così è la vita, ognuno artefice del proprio destino, o per meglio dire della pillola che butterà giù. Ma quel che voglio raccontare qui, in questo resoconto d’una serata ordinariamente straordinaria, in verità è un’altra cosa, perché il miserabile spettacolo che offriamo ogni giorno sui social network è rimasto al di fuori del teatro, confinato nel mondo virtuale. A Catania, insomma, ha vinto il candore, la lineare bellezza d’una musica semplice ma stratificata, orecchiabile ma anche complessa, strutturata e pervasiva. Il nuovo disco di Colapesce è stato accolto e raccontato dalla critica con argomentazioni di questo tenore, si legge qua e là. E non entro nel merito perché sono un fan e non un critico musicale, per me il disco – come dicevo su – è semplicemente bello e bellissimo. Ma sono argomentazioni che nel passaggio dall’ascolto casalingo al concerto sono state confermate dai fatti, dalle sensazioni, dalle reazioni di una platea partecipe ed emozionata. Sia la paccottiglia per fedelissimi sia il rancore dei mistici sono rimasti al di fuori della sala. L’unica cosa che contava era la musica. Ed è stato troppo forte sentirsi “totale”.
Author
Angelo Orlando Meloni
Angelo Orlando Meloni
Angelo Orlando Meloni è nato a Catania e vive a Siracusa, dove lavora nella libreria storica della città. Ha scritto il ponderoso, poderoso, pretestuoso romanzo Io non ci volevo venire qui, breve manuale di autodistruzione per il conseguimento della felicità, la sceneggiatura (insieme a Gabriele Galanti) del fumetto pulp-pure-troppo-pulp Triviale, dietro le cattive intenzioni (disegni di Massimo Modula), il romanzo comico-avventuroso-filosofico & di tutto di più Cosa vuoi fare da grande, il romanzo breve horror-tragi-zombi-comico-editorial-apocalittico La fiera verrà distrutta all’alba (Intermezzi editore). Il suo ultimo libro, uscito nel 2019, si intitola Santi, poeti e commissari tecnici, ed è stato pubblicato da MIraggi edizioni.
Nostalgia canaglia
written by Angelo Orlando Meloni
Avete presente il comodino? Quel nobile mobile su cui erigiamo la piramide di libri? La mia piramide è crollata e alla sua base ho trovato Sinapsi di Matteo Galiazzo, raccolta di vecchi racconti pubblicati per la prima volta in volume da Indiana nel 2012. Il che per i tempi dell’editoria corrisponde a diecimila anni fa circa. Non chiediamoci che fine abbia fatto l’editore, chiunque sia in vena lo potrà scoprire in Rete; e non chiediamoci più che fine abbia fatto l’autore, uno dei più rappresentativi negli anni ’90 prima di ritirarsi dalle scene “misteriosamente”. Chi ha letto il libro già ne conosce il motivo, una soluzione al dilemma che rende onore al rasoio di Ockham. Ma allora, se una soluzione al dilemma c’è, cos’altro possiamo chiederci, noi inesausti cercatori di non-so-che, fuffa e novelle? Per esempio se sia giusto continuare a parlare di libri come se fossero formaggini. Non so più quanto tempo fa l’ho scritto la prima volta, sul supplemento di un quotidiano, su una fanza, su… boh. Comunque sia, i libri, quelli buoni, non hanno una data di scadenza. Non come la mozzarella. E questo è uno di quelli buoni. Oddio, forse qualcuno tra i racconti di Sinapsi ha perso qualcosa immolandosi sull’altare del post-qualcosa, ma se non avete mai letto un racconto di Matteo Galiazzo penso che vi siate persi qualcosa di più. Che cosa, esattamente, non saprei dirlo, ma qualcosa. Leggere Matteo Galiazzo mi fa venire in mente i personaggi di un mastodontico libro di Douglas Hofstadter, non so se avete presente, Achille, la tartaruga, il formicaio e via discorrendo. Un trip di quel tipo, insomma, molto meno illuminante e decisivo per la formazione culturale (non me ne voglia lo stesso Matteo Galiazzo), ma di sicuro fantasioso, stimolante. Penso al racconto “Il ferro è una cosa viva”, ad esempio, e mi vengono in mente Tristi tropici, il crucimorfo di Dan Simmons, un sacco di cose che non ci azzeccano niente, ma vi ho già detto che questa è roba buona. E subito m’assale la nostalgia canaglia, d’un tempo in cui c’era la letteratura “pulp”, Ranxerox su Rai 3, i grandi editori pubblicavano cose strambe e pure io ero giovane e strambo, soprattutto non avevo il mal di schiena ed ero capace di eseguire un perfetto terzo tempo in sottomano anche con la sinistra.
Al contrario di Matteo Galiazzo, Fabio Genovesi ha esordito con un piccolo editore, Transeuropa, per poi fare il salto con Mondadori. Il suo ultimo libro è Il mare dove non si tocca, storia di un bambino con troppi nonni, uno più strambo (aridanghete) dell’altro: un racconto di crescita brillante e arguto, illuminato da una barbaglio di tenerezza che risplende in ogni pagina, le più buffe come le più toccanti. Sono passati parecchi anni dal suo esordio e Fabio Genovesi si conferma ancora una volta. Non blandisce il lettore con amenità strappalacrime né cerca di stenderlo con l’accademichese o di darsi arie con trovate postmodernine e vezzi che nascondono astratti furori, perché è un signor scrittore, un cavallo di razza, e basta sfogliare qualche riga dei suoi libri per rendersene conto, ora come allora, sia quando ci raccontava dei tossici in Versilia rock city sia adesso che narra una storia di formazione con il più grande editore italiano. In conclusione, mandando al macero la nostalgia canaglia e tutti i libri tremendissimi che abbiamo letto a vent’anni perché faceva figo, una domanda sorge spontanea e questo sito, Senzaudio, su cui scrivo orgogliosamente da qualche anno, mi pare una buona sede per esplorarne le pruriginose scaturigini. Il libro “indie” è transustanziale? Quando cambia editore, lo stesso romanzo o racconto, intendo, diventa qualcos’altro? Se un autore “underground” ha successo e pubblica con una grande casa editrice, all’improvviso le sue opere – anche se il contenuto è rimasto lo stesso – non sono più “indie”? Ai teologi più raffinati l’ardua sentenza.
Il Grande Chihuahua morde – intervista a Luca Raimondi e Joe Schittino
written by Angelo Orlando Meloni
Luca Raimondi (pedagogista e scrittore) e Joe Schittino (compositore di fama internazionale e scrittore) li conosco da troppo tempo per non sapere che lo stramaledetto protagonista del loro romanzo Il grande chihuahua (pubblicato da Augh! edizioni) ci stesse [SPOILER]. Ci stavo proprio ammattendo: come si può costruire una storia con uno stronzetto così viscido, crudele, insignificante e allo stesso tempo pieno di sé, se non [SPOILER]? E infatti alla fine del romanzo [SPOILER]. Un po’ Zeno (ma senza la sua ironia) e un po’ Bateman (ma senza i suoi piccioli), il giovine, malmostoso universitario protagonista de Il grande Chihuahua non si fa certo volere bene, di sicuro non come il duo Raimondi-Schittino e il loro monologo interiore. La voce degli autori, infatti, sostiene l’opera con brio e con coerenza, raccontandoci un campionario di efferatezze, meschinerie e filosofeggiamenti iper-adolescenziali fino al lirismo delle ultime, bellissime pagine, le migliori del libro, a mio modesto avviso.
Ho incontrato Luca e Joe pochi giorni fa in una delle viuzze che si snodano per il centro storico del paesello siculiano in cui viviamo e dopo essermi guardato alle spalle – non si sa mai, poteva esserci anche il giovine studente psycho-universitario in agguato – ho posto loro alcune domande. Le riporto qui, in ordine di cazzeggio crescente. Se invece volete sapere a cosa corrispondano tutti gli [SPOILER], be’… saltate pure l’intervista e procuratevi una copia del libro.
Il grande chihuahua è il vostro secondo romanzo, dopo Cerniera lampo. Vedo che siete ancora tutti interi, quindi è andata bene. O siete come quei tipi a cui piace soffrire? Nonostante esempi clamorosi (i fratelli Strugackij, Gibson e Sterling, Pratchett e Gaiman, Dick e Zelazny, Asimov e Silverberg, i nostri Fruttero e Lucentini), la nota agenzia vox populi continua a rilanciare con “la letteratura è un affare per cuori solitari”. Voi come la vedete?
JOE: Interi o parzialmente scremati che sia, dopo la fatica de Il grande Chihuahua siamo esattamente come prima: felici. Prima di tutto di aver ritrovato intatta, pur nella diversità del pensiero e di quanto la vita ci ha portato a essere (artisti e tipacci poco raccomandabili: infatti non ci vuol mai raccomandare nessuno!) la nostra comunione di intenti, la nitidezza del nostro lavoro d’officina. Lavorare con Luca è un privilegio, oltre che uno spasso. Si tratta di un’alchimia, di una formula magica, che vede sullo stesso tavolino due autori perfettamente formati, indipendenti e dalle idee chiare (non alessandre o martine), che però hanno anche l’attitudine all’ironia, la disponibilità a mettersi in gioco e la saggezza di lasciarsi andare e ascoltare la voce l’uno dell’altro, filtrando il tutto in una pagina che è una “terza creatura”, completamente diversa dallo stile di entrambi. Poi, personalmente, adoro lavorare in squadra. Con la musica è cosa naturale: nella storia del melodramma, per esempio, sono rari i casi di compositori che hanno scritto da sé anche i libretti delle proprie opere. Io musicare i miei testi? Sarebbe come baciare uno specchio (ho un grande rispetto per gli specchi, anche se non mi sono mai domandato come mai). Senza contare che, di per sé, il lavoro di chi scrive in generale è legato in partenza a chi leggerà quelle pagine o eseguirà quella partitura, mettendoci del suo e spesso facendo meglio di noi. Non siamo i proprietari, ma solo i depositari delle nostre idee: alla fine, siamo soltanto gli autori. Di fatto, gli artisti come “cuori solitari” non sono mai esistiti.
LUCA: Sono figlio unico affetto da un lancinante “senso di solitudine” che mi coglie in qualunque circostanza, compresi i momenti che dedico alla scrittura. Adolescente, scrivevo tanto, ma non mi divertivo quanto avrei voluto, mi sentivo eccentrico e troppo diverso dai miei coetanei in tutt’altre questioni affaccendati. Mi sentivo dannatamente solo. A soli diciassette anni, però, ho vinto alla lotteria, trovando uno dei migliori alleati di scrittura che potessi sognare, un ragazzo ancora più eccentrico di me che aveva già pubblicato un libro di poesie ed era stato ospite decine di volte al Maurizio Costanzo Show. Parlo ovviamente di Joe con cui, in appena una ventina di giorni del ‘94, ho partorito Cerniera lampo, un sapido romanzo di de-formazione che l’anno scorso, esattamente vent’anni dopo la prima pubblicazione (che risale al ’96) è stato rieditato per le Edizioni Il Foglio di Gordiano Lupi. In questi vent’anni ci eravamo un po’ persi, “ognuno a rincorrere i suoi guai”, e ritrovarsi ha rappresentato un piacere così intenso che abbiamo subito ripreso a lavorare insieme, stavolta a un abbozzo di romanzo di tanti anni fa, rimasto imperfetto e incompiuto. Lo abbiamo usato come punto di partenza per rimetterci al lavoro e alla fine avevamo tra le mani un romanzo tutto nuovo e contemporaneo, che è Il grande chihuahua. Le letteratura per “cuori solitari”? In musica ci sono i solisti e le band, non vedo perché non si possa fare altrettanto in letteratura. Nel libro si citano spesso i Beatles, uno dei migliori lavori di squadra di tutti di tempi. Lennon e McCartney (ma anche Harrison e persino Ringo Starr) hanno prodotto ottime cose senza l’altrui contributo, ma certamente i Beatles al completo erano tutta un’altra storia.
Mi rendo conto di aver citato nella precedente domanda solo gente che di riffa o di raffa ha avuto a che fare con fantasy e fantascienza. In effetti non c’entra niente con il vostro libro, ma siccome tra i pochi lettori motivati ci sono gli appassionati di Sci-fi e simili, forse queste righe ci garantiranno un pietoso click in più. A meno che non vogliamo davvero sperare nell’interessamento dei poseur che infestano la Rete e alcuni quartieri alla moda delle grandi città. Quella è gente che vuole solo pubblicare, pubblicare, pubblicare. Non gliel’aveva detto nessuno che bisognava pure leggere. Ma a proposito, voi che state leggendo, carusi? Per favore non fatemi anche voi la parte “leggo solo classici”.
JOE: Leggo di tutto, sono disordinato e ne sono fiero. Sono innamorato di Liala: ha creato un monumento letterario in cui ero(t)ismo e leggiadria si mescolano in una lingua di singolare dolcezza e raffinatezza. Non è solo chincaglieria da bancarella. Adoro Céline (e Caproni geniale traduttore: meno il poeta) e il Cocteau de La voix humaine e del Libro bianco. Mi commuove Gadda, mi intristisce Bassani, mi inquieta Houellebecq. Else Lasker-Schüler è ospite fissa del mio comodino col suo Blaues Klavier e mi augura la buonanotte da anni. Uno ganzissimo del XVIII secolo? Matthias Claudius (Die Sternseherin Lisa o la più celebre La morte e la fanciulla). Poi trovo estremamente toccante la lettura di Rainer Kunze, Jürgen Fuchs e in generale degli autori della ex DDR con la loro esperienza: con uno di loro, di quella generazione (Klaus Rohleder, il “Beckett del Vogtland”, Bundesverdienstkreutz 2011, ma a suo tempo sottoposto a minacce, perquisizioni e boicottaggi dal regime) ho avuto tra l’altro l’onore di collaborare per alcuni progetti di teatro musicale (naturalmente ignorati qui da noi). E, in ultimo, Arnold Schönberg, un grande compositore che è anche un brillante scrittore: lo stile letterario della Harmonielehre, ma in generale di tutti i suoi scritti teorici, è di una esattezza ed eleganza ineguagliabili, tale per cui anche i profani possono comprenderlo e godere dappertutto, persino nel cervello.
LUCA: Come Joe, negli anni ho accumulato libri e interessi, diventando un lettore sempre più disordinato e caotico, per cui tengo decine di libri sul comodino, non necessariamente di narrativa, e la sera ne apro uno in base all’umore, riprendendo lì dove ho inserito il segnalibro. Tra questi libri comunque non mancano mai uno Stephen King, da sempre il mio autore preferito, un autore italiano contemporaneo (va bene l’esterofilia, va bene leggere i classici, ma anche tenersi informati sulle più recenti tendenze nostrane è necessario), un autore polacco (mia moglie è polacca e da un decennio esploro quella meravigliosa cultura mitteleuropea) e qualche raccolta di racconti. In questo momento frullo allegramente la lettura de Le nostre assenze di Sacha Naspini, Notte, giorno e notte, romanzo polifonico di Andrzej Szczypiorski e divoro un Mammut della Newton Compton dal titolo Storie di vampiri, un migliaio di fitte pagine con dentro settanta autori e il meglio della narrativa breve sull’argomento, non vedendo l’ora che esca, a gennaio per l’editore Morellini, l’antologia da me curata dal titolo I signori della notte. Storie di vampiri italiani. L’horror è un genere a cui tengo molto, che fin dall’adolescenza mi porta lontano con l’immaginazione, ma anche vicino ai grandi tempi dell’esistenza, compreso il più grande, che paradossalmente è il tema della non-esistenza, cioè la morte. Non disdegno ovviamente anche gli altri generi, dalla letteratura “colta” (come se l’horror non lo sia), al giallo, dalla fantascienza che hai citato alla narrativa ucronica e distopica: il Nobel a Ishiguro mi ha spinto a riprendere in mano un libro che avevo acquistato tempo fa e poi colpevolmente ignorato, Non lasciarmi, che appartiene a quest’ultimo filone.
Non c’è due senta tre? O vi fermerete qua? Non vi siete mai chiesti anche voi come sia possibile che ci sia tutta questa gente che scrive, a Siracusa? L’Italia intiera è invasa da una quantità così mostruosa di romanzi che a leggerli tutti ci vorrebbero cento vite. Almeno voi, o saggi e virtuosi amici, frenerete la vostra vis creativa? O anche voi siete stati sopraffatti dall’urgenza espressiva?
JOE: C’è sempre stato, da che mondo è mondo, chi vuol dire qualcosa e chi ha qualcosa da dire. Il sistema democratico nell’arte non funziona: essere creativi non implica l’essere artisti. Una cosa è il bricolage, un’altra è lo stile, la ricerca, l’intuizione. E altra cosa è anche il garbato buon senso di ritirarsi in buon ordine, se e quando si capisce che magari non si è cavato un “buco dal ragno”. Il discorso è vetusto. Una volta era più difficile, oggi chiunque dispone di una tastiera e di un software. E quindi, chiunque scrive. Florence Foster Jenkins diceva: “potranno anche dire che ho cantato male, ma nessuno potrà dire che non ho cantato!”. Ma non mi dà fastidio, anche perché io stesso potrei essere una Florence delle tante. Ma sì, che scrivano pure tutti! Siamo un popolo di poeti, ci piace fare poesia e dunque andiamo a capo, se ciò serve a darci per un attimo l’illusione di aver prodotto qualcosa di buono, di utile, e dunque di valere qualcosa. Magari sarà il soggetto del nostro prossimo romanzo!
LUCA: Ci sono rispettivi altri progetti all’orizzonte che necessitano di essere seguiti, ma non è escluso che torneremo un giorno a scrivere un terzo romanzo: un’ispirazione ci era persino arrivata, chissà se un giorno o l’altro riusciremo a concretizzarla. Sinceramente non so perché si scriva e si pubblichi così tanto, a Siracusa come altrove, né m’interessa. Io sono in buona fede, sento addosso non dico un innato talento ma di certo una vera passione, una vocazione che mi ha messo in testa di costruirmelo, quel talento, pian piano, con fatica. Pubblicare anche libri a volte “sbagliati” fa parte di quella gavetta che ho sentito di dover fare. Pubblicare è la logica conclusione del processo di scrittura, un processo di comunicazione che necessita di un pubblico, foss’anche di soli venticinque lettori. E se qualche editore pensa di arrivare a un pubblico più ampio con il mio libro, gli lascio volentieri la sua speranza, condividendola. Certamente gli editori dovrebbero darsi da fare per ridurre la quantità e alzare la qualità, ma un editore è prima di tutto un business man e fa i suoi calcoli secondo criteri economici che non mi appartengono. Mi piacerebbe che un editore sentisse non solo la necessità di un immediato guadagno, ma anche il dovere morale di sfornare libri che, una volta ritrovati tra le macerie di un olocausto nucleare tra mille anni, potessero fornire qualche traccia della nostra esistenza, del nostro tempo, essere dei messaggi in bottiglia per i posteri. Mi piacerebbe scrivere un libro, un giorno, che fosse funzionale a tale scopo. Invece con Joe ho scritto Il grande chihuahua e chissà cosa penseranno di noi i posteri! Diranno che nel 2017 eravamo tutti matti! E chissà, forse avranno ragione loro.
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Enrico Remmert ha scritto Rossenotti, La ballata delle canaglie, Strade bianche, tre romanzi pubblicati da Marsilio. Un autore maturo, baciato dal successo, tradotto all’estero, di tutto rispetto. E poi, però, cosa ci combina il Remmert? Ci casca anche lui e ci propina La guerra dei murazzi, nientemeno che una raccolta di… di racconti. Sissignore! Immaginiamo già la faccia del suo editore una volta avuta la notizia. E quella del distributore. Per non parlare di quelle dei librai e per ultime quelle dei lettori, sospese tra l’incredulità e il furore che le invade ogni qual volta un libraio che non sa fare il suo mestiere osa proporre una raccolta. Ma come osano questi mattoidi? Non hanno capito che scrivere racconti oggidì è un suicidio? Figuriamoci cercare di venderli, non parliamo nemmeno di provare a leggerli. Guardiamoci in giro e ammettiamolo, amici, chi legge ancora racconti nel 2017? Giusto qualche disadattato, qualche nostalgico utopista con la bandiera rossa, i capelli lunghi e l’infradito anche d’inverno, convinto che un mondo diverso è possibile. Tutta roba passata, finita, centrifugata e digerita dal Grande Generatore di Luoghi Comuni che informa usi e costumi del XXI secolo. Pensate forse che io stia pazziando? Che sia un provincialotto in vena di facezie? Riponete pure sul vostro comodino di design la raccolta di racconti ultrapostmegamoderni senza finale scritti in centoquindicesima persona con cui vi state gingillando e fatevi un giro per fiere e librerie. Sono sicuro che vi ricrederete. Gli uomini che odiano i racconti sono tanti, tantissimi, probabilmente la maggioranza di quella minoranza di gianfanniente che, ogni tanto, si ostina a leggere qualcosa.
Il primo di questi racconti (a proposito: mi rivolgo ai due o tre ancora interessati a La guerra dei Murazzi dopo questa mia tiritera) ci racconta la storia alcolico-lirica dei Murazzi a Torino, sospesa tra spaccato di vita cittadina e beat-romanticheria-effusiv-qualcosa. Non male, decisamente non male. Il secondo, “Otto progetti per la costruzione di una nuvola”, nel segno della grazia e dell’arguzia, dell’incontro con un giapponese magico. Figo. Il terzo, “Havana 3 a. m.”, d’un viaggio a Cuba alla scoperta di Cuba, com’è davvero, ma anche come la sognano i personaggi e con loro i lettori; non un viaggio alla scoperta del sé e nemmeno una di quelle cose in cui la meta non è importante eccetera, ma proprio un viaggio-viaggio in un posto lontano eppure immaginato e vagheggiato, un’avventura esotica, ma ai giorni nostri. Molto, molto gustoso. Infine l’ultimo, “Baal”, la storia di un cane mostruosamente feroce, della natura che lo circonda, che ci circonda tutti, maestosa e silente testimone dei nostri fallimenti, delle nostre fughe, della nostra crudeltà e anche della nostra rinascita, quando ce la facciamo, il che non accade proprio tutti i giorni. Com’è questo racconto? Bello bello bello e bellissimo. Ecco, l’ho detto. Buona lettura.
Dieci sottospecie di intellettuali di cui non sentivamo la necessità
written by Angelo Orlando Meloni
“Leggiamo poco, che tempi, che tempi, ai miei tempi”, e ci ritroviamo sempre lì, a parlare dell’età dell’oro in cui i capolavori crescevano sugli alberi e anche gli animali domestici erano abbonati al club degli editori. Ma l’età dell’oro è finita e ha lasciato in dote alle librerie dieci sottospecie di “intellettuali” di cui nessuno sentiva la necessità.
L’uomo che odiava i racconti
All’inizio si comportano come lettori normali, però se gli dici “questa è una raccolta di racconti” escono dal bozzolo e fanno una faccia come avessi detto “morirai presto tra indicibili sofferenze, brutto bastardo” e fuggono terrorizzati. Non c’è niente da fare, i racconti sono quella cosa che piace a tutti tranne che ai clienti di una libreria, dobbiamo farcene una ragione.
Il classicista
Entra in libreria solo per dire che “non ci sono più i libri di una volta” e che lui legge solo classici. Non compra mai niente, ma non rinuncia a un giro per gli scaffali con fare censorio per poi concludere “che tempi, che tempi, ai miei tempi”.
Il sinistrorso
Il sinistrorso entra in libreria solo per dire che “la cultura è morta” e che le librerie moderne sono supermercati. Non compra mai niente, ma non rinuncia a fare un giro per gli scaffali sulle ali dei suoi sandali per poi concludere con un “che tempi, che tempi, ai miei tempi” poco prima di andare a sbattere contro il classicista.
Il pasoliniano
Per lui tutto è Pasolini. L’inizio e la fine di tutte le cose. Il perno del mondo. Nonostante questo, puoi anche costruire un altarino, ornandolo con tutte le edizioni mondiali del suo idolo, ma il pasoliniano entrerà in libreria solo per far notare che “la letteratura è morta”. Non compra mai niente e l’ultimo film del Maestro lo ha visto ai suoi tempi, ragion per cui non ricorda granché della faccenda, a parte che sono opere “importanti”.
L’autore di m.
L’autore di m. ha scritto un libro (a volte, dieci libri) pubblicato dal famigerato editore Prendo i soldi e scappo di Borgobello Maggiore di Sotto. Non ha mai, ripeto mai, comprato un libro in nessuna libreria italiana o straniera, ma si presenta lo stesso a tutti i librai che è in grado di raggiungere con una pila di venticinque copie del suo “capolavoro”. Privo di vergogna com’è, spesso pretende che il suo romanzo autobiografico intitolato Va’ dove ti porta via Piave e la sua silloge intitolata Il cuore e l’anima siano esposte in vetrina al posto dell’ultimo romanzo di Stephen King, Donna Tartt o Jonathan Franzen.
L’antiamericano
L’antiamericano è trasversale e metamorfico. A volte è pure un classicista, o un sinistrorso sandalizzato anche d’inverno, ma sempre corroborato dal suo odio per gli yankee. Altre volte è una coppia a risponderti in coro “Vade retro, America!”, lei con la pettinatura del 1981, lui con il trench del 1979; e sono già abbastanza nervosi – va detto – per aver scoperto che il centro storico è stato chiuso al traffico da una ventina d’anni. Altre volte ancora a protestare contro i gringos è un diciannovenne in lotta contro il mondo, animato da astratti furori, a cui Max Stirner fa un baffo. Oppure si tratta d’un nostalgico del ventennio fiero della sua diversità in quest’Europa governata dalla banche. Non importano le differenze tra i vari soggetti, essi sono tutti affratellati da un odio sano, puro e sincero per la letteratura americana. “Nordamericana”, precisano se interrogati, perché in genere quella sudamericana, a loro, piace da impazzire. Salvo poi fare una faccia così e fuggire terrorizzati se il libraio gli propone una raccolta di racconti firmati da Borges.
Il penitente
Il penitente è un peccatore che usa la letteratura come fosse un cilicio. Deve espiare le sue colpe e ha realizzato che i libri noiosi possono aiutarlo nel difficile percorso verso l’espiazione. Già Dostoevskij, per lui, puzza di cultura pop, a momenti. L’unica cosa che conta sono il dolore, il sudore, lo struggimento. Ogni tanto si arrischia a comprare un libro per regalarlo a qualche anima in pena bisognosa di soccorso spirituale e quindi si aggira tra gli scaffali tutto schifato, perché per lui la letteratura contemporanea è il male assoluto. Alla fine, se proprio è obbligato dalle circostanze e dagli obblighi sociali, compra un Dostoevskij qualsiasi e se lo fa incartare.
Il pedagogico
Parente stretto del penitente, il pedagogico usa però la narrativa, rigorosamente classica e certificata DOP, come se essa corrispondesse a un manuale di matematica o di fisica o di chimica. Per lui un romanzo deve contenere preziosi insegnamenti, va bene anche se arcani e riposti, altrimenti niente certificazione. Spesso il nostro non ha mai letto un libro scientifico in vita sua, ed è convinto che solo leggendo romanzi e racconti placherà la sua sete di sapere. Se gli punti contro un volume qualsiasi della Biblioteca Scientifica Adelphi reagirà come i vampiri davanti al crocefisso.
Lo smemorato di Collegno
Figura dai contorni mitici, sempre in cerca di un libro di cui non ricorda il titolo né il nome dell’autore. Vaga come un’ombra senza pace per tutte le librerie della città alla ricerca del suo misterioso volume.
Il tubista
Convinto che i libri siano stati inventati dopo gli youtuber, si aggira per gli scaffali in cerca dei suoi eroi, ma è l’unico che ogni tanto compra ancora qualcosa.
Ka mate
Secondo una profezia, dopo che tutte e dieci le predette categorie si saranno incontrate contemporaneamente all’interno di una libreria di catena, lo smemorato di Collegno ricorderà il titolo del libro misterioso. Effettuata una danza rituale, l’orda immolerà il tubista su di una pila di classici per purificare il mondo e andrà all’attacco degli scaffali per nettare i nostri comodini della nequizia che vi abbiamo depositato.
Il libro indie in dieci punti – manifesto per un’estate di letture prive di sensi di colpa
written by Angelo Orlando Meloni
Il libro indie è alla moda, non è importante leggerlo o leggerlo tutto, ma sfoggiarlo.
Il libro indie rifiuta le virgolette dei dialoghi, che fanno troppo “libro di genere”, e pazienza se così facendo a volte non si capisce un cacchio di quello che stiamo leggendo.
Il libro indie può essere molte cose, un concept, un must, uno status, un cilicio, molto difficilmente però è un romanzo con un inizio, uno svolgimento e una fine.
Il libro indie, anzi, se ha un finale non è più indie.
Il libro indie a volte il finale te lo rivela a metà.
Il libro indie può essere scritto in prima, seconda, quarta, quinta, sesta, settima, decima, trentesima persona, non ha importanza, basta che non sia scritto in terza persona, che fa così cheap.
Il libro indie è intimo, urgente, necessario. Come un pannolone.
Il libro indie spesso è un libro “de problemi” che vuole salvare il mondo e redimerci tutti.
Il libro indie non è divertente, perché divertirsi con un libro è out.
Il libro indie infine è transustanziale: quando il suo autore diventa famoso e pubblica con una grande casa editrice, all’improvviso i suoi libri – anche se il contenuto è rimasto lo stesso – non sono più indie.
Ci sono momenti in cui entrare in una libreria o fumetteria riesce ancora a regalarti quell’emozione lì. Di quando su Corto Maltese c’era Il ritorno del cavaliere oscuro a puntate e correvo in edicola, traboccante di gioia, di aspettative, ignaro di quello che Frank Miler avrebbe detto, scritto e disegnato negli anni a venire. Ma se invecchiare è un’arte difficile e non a tutti gli artisti, musicanti, imbrattacarte e poetastri riesce sempre benissimo, il problema non sembra riguardare sua maestà Grant Morrison, che continua a sfornare roba di gran classe sin dall’inizio degli anni ’80. Ne è prova, tra le tante, questo WE3, uno sciccosissimo volume appena ristampato da RW Lion, scritto dallo stesso Grant Morrison, ovviamente, e disegnato da Frank Quitely. Ma cos’è WE3, vi starete chiedendo, divorati dalla curiosità che vi sta impedendo di farvi un altro tuffazzo nel mare blu? Anzi, chi sono i WE3? Ebbene, sono tre innocui animali domestici, un cane, un gatto e un coniglio, che sono stati rapiti e trasformati in una squadra di assassini cibernetici al soldo del governo o del miglior offerente. Ma le cose non andranno per il verso giusto e se anche a voi l’idea di fornire a un micio un esoscheletro da battaglia che ne amplifica a dismisura le capacità non sembra una genialata, be’… mettetevi comodi e preparatevi allo spettacolo. Semplice e allo stesso tempo profondissimo, disegnato in maniera sublime da un immenso Frank Quitely, WE3 è puro fumetto di intrattenimento, ma anche apologo filosofico e inno animalista. Insomma è un commovente capolavoro. Ecco, l’ho detto.
Siccome in estate i fumetti mi prendono benissimo (come nelle altre stagioni, a dire il vero), oggi parliamo pure di Aiuto!, un albo pubblicato da Bao qualche tempo fa, ma che non essendo una mozzarella non è destinato a scadere, non tanto presto almeno. Aiuto! è uno spiazzante fumetto splatter-pastello, una favola nera ma a colori (!?), che ci racconta la storia semplice e crudele di un manipolo di cacciatori che vogliono vendicarsi di uno scoiattolo e di un cucciolo d’orso. Detta così la faccenda appare grottesca. Vendicarsi di uno scoiattolo, di un orsetto? Uomini grandi e grossi contro esserini indifesi? Non sembra folle, non sembra assurdo, imbarazzante, patetico? Ma quante volte l’animale uomo si distingue per l’uso indiscriminato della violenza contro chi non la pensa alla sua stessa maniera, contro chi non crede nel suo stesso dio o ci crede ma in una maniera leggermente diversa? Quante persone, piante o animali abbiamo spazzato via per fare posto alle autostrade che ci porteranno diritti verso i nostri rist-o-rama preferiti, lì dove potremo ballare la danza del momento agghindati come perfetti imbecilli, magari con una bella pelliccia addosso? A quanti animali sotto le nostre case, nelle strade delle nostre fetide città inadatte a essere percorse da cuccioli e bambini, abbiamo rifiutato le nostre attenzioni perché “così vuole la legge di natura”? Aiuto! è un folle gioiellino a fumetti, una gioia per gli occhi firmata dai giovani, giovanissimi Isaak Friedl (testi e matite) e Yi Yang (coloratissimi colori) in cui gli uomini fanno quello per cui si sono sempre distinti, parlare a vanvera e sparare alla cieca, ma in cui gli animali per una volta non stanno a guardare. Un albo imperdibile per tutti gli amanti delle nuvole disegnate, degli animali e degli animali a fumetti! E in più alla fine del volume trovate pure gli adesivi in omaggio.
Per vari motivi esistenzial-professionali mi accade più spesso di quanto sia emotivamente preparato di dover rispondere alla domanda: “mi consigli un libro appassionante”? Ci sono poi quelli, una minoranza, ma ragguardevole, che vogliono essere consigliati su di un libro appassionante e “scritto bene”. E infine ci sono quelli che non fanno prigionieri, ti chiedono direttamemente un “capolavoro”. Ed è davvero molto difficile scansare questi assalti senza vendere l’anima al diavolo e far imbarcare l’amico in una lunga e mesta traversata verso la fuffa con un libro di m. Avete presente quei libri di cui tutti parlano, ma che poi nessuno legge ? Sarebbe molto facile consigliarne uno, ma siccome nella vita come nella letteratura l’onestà è tutto, cerco sempre di passare dritte sicure, roba genuina che se attacchi un capitolo poi non smetti più. Ed è per questo che ho ringraziato gli dei, e la casa editrice Elliot, quando è uscito il nuovo romanzo di Donald Ray Pollock, La tavola del paradiso.
Me lo aveva già detto un amico, un caro amico che qui ringrazio pubblicamente, uno che se ne intende. Leggi Pollock, mi aveva detto, non te ne pentirai. E aveva ragione, santo cielo se aveva ragione. La tavola del paradiso (tradotto da Gianluca Testani) è un romanzone brutto, sporco e cattivo, ma con un cuore grande così, ambientato negli USA rurali durante la prima guerra mondiale. Un po’ western, ma western crepuscolare da fine epopea, un po’ thriller-pulp-splatter, il romanzo ci racconta di tre balordi che decidono di svoltare e farla finita con la miseria in cui sguazzano emulando le gesta di Bloody Bill Bucket, il loro idolo, cioè il pistolero protagonista dell’unico libro che hanno letto. Ne viene fuori una storia bellissima, esaltante e gagliardissima in cui il destino fosco dei tre, rapina dopo rapina, si va a incrociare con il destino mesto di altri personaggi vinti dalla vita, dalla sfortuna, dalla miseria, sopraffatti dalla legge del più forte. Ma a differenza della cupa mistica nichilistico-verghiana che abbiamo studiato a scuola, qui una luce c’è, anche se bisognerà scavare fino in fondo e oltre per trovarla e fare un bel respiro.
La tavola del paradiso è una bomba di romanzo iperrealistico, come se Cormac McCarthy avesse fatto indigestione di noccioline di super Pippo e lo spirito del far west in acido si fosse impossessato del realismo socialista sviluppando un’epica dei vinti spalmabile in potenza su tutto il novecento e non solo sulla piccola contea di Knockemstiff nell’Ohio. O forse, forse, Donald Ray Pollock non è niente di tutto questo, più semplicemente è un grande scrittore, con una voce tutta sua, e fare il gioco dei paragoni serve e non serve. L’unico consiglio utile è questo: leggetelo pure voi, non ve ne pentirete.
Attendevo L’occupazione di Alessandro Sesto con una certa curiosità, visto che i suoi due libri precedenti mi avevano fatto sballare. Soprattutto l’irresistibile Moby Dick e altri racconti brevi, pubblicato da Gorilla Sapiens Edizioni (come gli altri due che lo hanno seguito). Curiosità soddisfatta perché L’occupazione è un romanzone ambizioso, una distopia post-apericena psichedelica e smartissima tre punto zero che si gusta con una certa freschezza, come una caramella alla menta (se vi piace alla menta) o all’anice (se vi piacciono le caramelle all’anice) o al rabarbaro (se vi piacciono le caramelle al rabarbaro, che ne so io, i gusti sono gusti). Chi ha occupato gli USA? E che cosa vogliono fare questi misteriosi nuovi padroni? La vita di tutti i giorni cambierà o sarà tutto come prima? I due nerdoni protagonisti dell’opera, Andreas e Jacob, concluderanno qualcosa? Questa e altre domande potrebbero presentarsi alla coscienza del lettore, se il lettore non fosse già occupato a chiedersi chi comanda davvero nella nostra realtà. In quella particolare distopia, cioè, che siamo obbligati a sorbirci nonostante abbia la stessa appetibilità di una granatina al tamarindo senza tamarindo e in cui gli stipendi sono bassi, le tasse altissime e da giorni il telegiornale si apre con la minaccia dell’atomica. Bah… molto più divertente leggere i libri di Alessandro Sesto, questo è certo.
Confessioni di uno spammer di Claudio Morici è un altro romanzo che attendevo con una certa curiosità, perché anche i libri di Claudio Morici mi erano piaciuti anzichenò (per tacere delle sue divertentissime performance dal vivo). Poi però ho cominciato a leggere altra roba e Confessioni di uno spammer è stato risucchiato dal maelstrom e ha dovuto risalire a galla fintanto che una sera mi son detto “Ohibò, ma tu da dove spunti”. Poi è stato amore a prima pagina. Ennesima dimostrazione del talento scoppiettante di Claudio Morici, Confessioni di uno spammer è un romanzo epistolare (via email) che ci racconta la resispiscenza di un ragazzo stufo marcio di scrivere email per gonzi boccaloni. La sua lettera di scuse, spedita a milioni di potenziali vittime della posta-spazzatura, riscuoterà enorme successo e il nostro, finito sotto i riflettori, comincerà a raccontare la sua vita, la sua tormentatissima storia d’amore e di menzogne, e la storia d’amore, o mancato amore, del suo coinquilino Matt, un collezionista compulsivo di DVD incellofanati dall’animo candido. Capitolo dopo capitolo, lettera dopo lettera, scopriremo un pezzo delle loro vite alla volta fino a che… fino a che… e non ve lo dico mica che succede, perché questo romanzo ve lo dovete comprare. Per una volta datemi retta, i libri esilaranti e ispiratissimi di Claudio Morici fate davvero meglio a leggerli. Se vi volete bene.
Una storia “importante”
written by Angelo Orlando Meloni
Ancora una volta. È successo ancora una volta. “Non importa da quale ingresso Daniele Rielli decida di entrare nel diorama ibrido e surreale che chiamiamo contemporaneità. Importa come ne racconta, ogni volta, un angolo diverso. E quanto, ogni volta, riesca a farci ridere”. Uno dei motivi per cui amo la casa editrice Adelphi è che ha dato alle stampe libri di una certa “importanza” (vedi infra), che non sarebbe nemmeno il caso di mettersi a citare qui per quanti sono, santo cielo. Per cui mi limito a citare una sola collana: la Biblioteca scientifica. Una collana che definire “importante” (aridanghete, vedi infra) sarebbe riduttivo, composta com’è da un dream team che farebbe impallidire il Dream Team o la rosa del Brasile nel 1970. Quella collana, insomma, che esordiva con Gregory Bateson e poi continuava con Hofstadter, Putnam, Damasio, Minsky, Feinman, Dennet, Barrow e via discorrendo. Libri talmente pieni di nozioni meravigliose, talmente traboccanti di cultura scientifica e illuminazioni che se li avvicini a un tipico intellettuale del Sud tutto liceo classico e tragedia greca fanno lo stesso effetto dei crocefissi sui vampiri. Avete presente uno di quei tizi che usano la parola “cultura” come il parmigiano, ma poi in verità non entrano in una libreria, biblioteca o museo da secoli? Ecco, mettetegli di fronte un volume della Biblioteca Scientifica Adelphi e il tizio si liquefarà tra indicibili tormenti lasciando ai vostri piedi una pozza schifosa (non fatelo se avete comprato un tappeto persiano).
Nonostante tutto questo abbacinante splendore, però, ci sono dei momenti in cui faccio fatica a comprendere gli amici di Adelphi. Era già successo, per esempio con la quarta di copertina de I due allegri indiani, un romanzo grazie al quale “si ride a ogni pagina, a ogni episodio, a ogni sberleffo, a ogni nuova invenzione verbale”, ed è successo anche per Storie dal mondo nuovo di Daniele Rielli, che ci viene venduto, anche lui, come un libro comico. A quanto pare, la mia relazione con il meraviglioso catalogo Adelphi è minata da alcune incomprensioni; a quanto pare il mio concetto di risata non corrisponde con quello adelphiano e mi preparo a inginocchiarmi sui ceci. Mi meriterei una reprimenda collettiva e qualche punizione pazzesca, qualcosa di severissimo, tipo leggermi tutte le mille e trecento pagine di Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino al contrario. Me lo meriterei se non fosse che a me capiti di ridere con più facilità vedendo una gag di Vieni avanti cretino o Fantozzi, entrambi diretti da Luciano Salce, che con una scenetta tratta dal pur geniale Il senso della vita dei Monthy Python, per esempio. Allo stesso modo trovo maggiore sollazzo nella gag di Ratman con la puzzetta del peluche che nelle argute, “importanti” (portiamo pazienza e… vedi infra) pagine in cui Daniele Rielli (già noto, anzi, molto noto, con il nome da blogger di Quit the doner) mi racconta la storia dell’autonomismo sudtirolese, una storia piena di bombe e con alcuni morti. Perché pur con qualche battuta qua e là e pur muovendosi su registri che spesso virano sul sarcastico o sull’ironico, la storia che ci racconta Daniele Rielli nel suo reportage non fa proprio ridere, semmai è inquietante. Di certo non fa ridere come la gag di Ratman e la puzzetta del peluche. Sembra quasi che nel pudibondo pianeta dell’editoria italiana l’arguzia e la risata a dentri stretti siano diventate comicità grassa e che la comicità grassa sia stata bandita, forse perché in odor di disimpegno anti-intellettuale e pornografia. Ce li vedo proprio, questi intellettuali metropolitani con le mani affusolate, che non hanno mai dovuto arare la terra, sganasciarsi dalle risate mentre leggono I due allegri indiani di J. Rodolfo Wilcock o Storie dal mondo nuovo di Daniele Rielli. Non li state vedendo anche voi? “Cava, questo passaggio di Daniele Vielli sugli attentati mi solletica anzichenò, ahahah che videve…”, oppure: “Tesovo, lascia stave Totò e Peppino e senti quest’invenzione linguistica di Vodolfo Wilcok, è esilavante”. Quante risate, nel mondo raffinato dei lettori contemporanei, una ridarella continua che non ti dico. Peccato però che leggere i meravigliosi libri di Douglas Hofstadter pubblicati dalla Adelphi mi abbia suggerito che il riconoscimento delle strutture è qualcosa che si avvicina a, oppure è, il nucleo dell’intelligenza. E qui, signori, non ho riconosciuto nessuna struttura definibile come comica né ho riso a crepapelle. Ho però letto un buon libro, composto di reportage editi e inediti, alcuni più ironici di altri, che ci raccontano il mondo degli startuppari, quello dei giocatori di poker, la grande tribù che venera Valentino Rossi, l’autonomismo sudtirolese dal punto di vista di un “italiano” di Bolzano, il matrimonio milardiario di due magnati indiani in Puglia e un incontro con il mitico Frank Serpico. Se volete ridere fino alle lacrime, cercate qualche altra cosa, ma se volete leggere un libro arguto Storie dal mondo nuovo potrebbe assicurarvi qualche ora… “importante”.
Eh sì, cari miei, e qui veniamo al gran finale, l’aggettivo “importante” è diventato una specie di piaga costruita in laboratorio ed è sfuggito anche all’autore di Storie dal mondo nuovo, per la precisione a pagina centosettantadue (“giocare ai tavoli continuava a costare cifre importanti“). Tu quoque, Daniele Rielli. Non se ne esce, abbiamo perso come in quei film di paura in cui l’umanità è condannata. Fate attenzione a usare l’aggettivo “importante”, amici, fate molta attenzione. Come il Pacman del famoso videogioco, la parola “importante” si sta mangiando il vocabolario italiano una sillaba dopo l’altra. Allarme rosso, dal linguaggio televisivo e giornalistico è passata addirittura nelle pagine di un Adelphi. Il contagio si sta diffondendo come in un film con i mostri. Intravvedo perciò un futuro importante, dove la civiltà avrà subito perdite importanti, causate da un numero importante di cause, ma su tutte la più importante: il rincoglionimento semantico collettivo; o se vogliamo il rincoglionimento semantico importante. Presto, molto presto, useremo quest’unico aggettivo, “importante”, poi l’aggettivo “importante” divorerà sostantivi e avverbi, si farà tutto il vocabolario, la lingua sparirà e per scampare al caos importante che ne conseguirà, dovremo tornare sugli alberi. Ma con un tablet su cui battere con il nostro tozzo ditone. Ed è sull’onda lunga di queste riflessioni che concludo citando un fumetto: Odio favolandia di Skottie Young, pubblicato da Bao. Non mi ha fatto scompisciare, probabilmente non è un fumetto “importante”, ma un sorriso qua e là lo strappa. E poi leggere la storia di una bambina imprigionata nel mondo dela favole alla ricerca della mitica chiave che dovrebbe riportarla a casa, fino a che perde il senno e mette il bel reame a ferro e fuoco, ecco… in certi giorni più “importanti” di altri si potrebbe rivelare davvero liberatorio.