Tre donne, tre sedie. Una sedia è vuota, la donna a carponi; sta mugolando con la fronte, la bocca, sul dorso delle mani.
Lei striscia le ciabatte sul linoleum, prende i bicchieri di carta, bolle d’aria fanno gluc gluc nel boccione. Vuoi? dice ma la donna la ignora; quel suono che fa, esce come da dentro la pancia di un vaso di terracotta, si stringe in gola e si chiude in una U che riempie tutta la stanza.
Ulula? Le chiede la seconda donna; sta seduta sull’orlo della sedia come se qualcuno gliela stesse sfilando da sotto, le mani aggrappate ai tubolari di ferro. Prega, risponde lei e allunga la mano a sistemare la fascia del cardiotografo, ogni tanto alza il volume: sembrano gli zoccoli di un cavallo che galoppano nell’acqua. L’ultima donna, quella con le colombine sul pigiama, ha gli occhi chiusi e i capelli sfuggiti all’elastico le si sono incollati alle guance. Finalmente i pennini rilevano che qualcosa di potente come un sisma sta accadendo, almeno per una. Lei cerca di sorridere, ci siamo quasi, dice. Ma il quasi possono essere altre dieci ore che scollinano oltre la cena.
Fa niente, dice lui quando lo avvisa, mangio da solo. Un tramezzino con gli angoli all’insù, un’aranciata nel bar dell’ospedale. Lei avrebbe voluto cucinare, aveva già fatto la spesa; a lui piace la carne, anche quella al sangue, anche quella cruda. Ha i denti che sembrano mandorle, i capelli che diventano barba riccia davanti alle orecchie. E dopo? lei gli chiede sempre quando lui si riveste, la camicia ancora buttata sulla sedia; manca un mese alla scadenza del contratto, giorno più giorno meno. Gli occhi neri luccicano nello specchio: torno a casa; poi si volta. Perché non vieni anche tu? Lei si copre la pancia, le dita che disegnano sul lenzuolo: non ci sono abbastanza incidenti, qui? E lui: non ci sono parti in Israele?
Sei ore, quattro centimetri. Appena cinque millimetri nell’ultima ora, la donna è diventata sonnolenta e bisognerebbe stimolarla di nuovo. Lei le mette la flebo, si chiede di quella che pregava, se abbia già finito. Quanto manca? le chiede il marito della donna; ha gli occhi cerchiati e sembra un pesce che sbatta le branchie in un prato. Tanto, gli risponde anche se sa che a breve potrebbe essere preparato un campo operatorio, vada pure a prendere un po’ d’aria. L’uomo tentenna: se rinuncia al controllo per un attimo accadrà chissà cosa. Questo la fa riflettere su cosa significhi essere sciocchi: non accorgersi di quando non si è necessari. Anche lei lo è – non utile – quando si ostina a chiedere del dopo. Lui vuole tornare laggiù; è il mio paese, dice. Lei si identifica con tutte le donne, lui solo con i suoi uomini. Scoppia una bomba, gli ha detto una volta, un mezzo che si muove tipo un furgone, schegge di carrozzeria dovunque, sui passanti sul vigile sulla donna che sta sistemando le mele nella cassette che vende per strada, faresti differenza fra un ferito israeliano e uno palestinese? Non puoi capire, le ha risposto, tu non appartieni. Ha ragione, lei non appartiene, si muove da una donna all’altra senza legarsi mai. Loro si ricorderanno per sempre di lei, lei probabilmente non le riconoscerebbe se le incontrasse per strada, vestite invece che nude, pettinate e truccate. Israeliane o palestinesi non farebbe differenza, ma lei non è coraggiosa. Aveva paura che le toccasse la donna che pregava: è più difficile con le africane. Dio e il ginecologo, non vogliono altri. E’ frustrante con le africane, si diventa incapaci.
Un lettino, due staffe. Tieni aperto bene, dice, brava. Il marito sta alle spalle, le mani che accarezzano la testa, il cuscino, le sponde del letto a casaccio. Quello che lei sta guardando come un’aurora, a quest’uomo cosa può sembrare? Un ammasso grigio? La testa di un mostro? Trattieni ora, lei dice, respira. Sono ore che la donna respira, ha così poco fiato che non riesce neanche a piangere, solo un rantolo di gola. Le colleghe hanno raccontato che le africane si accompagnano con un’emissione vocale –una montagna che trema– della stessa durata delle spinte; un controllo istintivo quasi perfetto anche quando sono primipare.
L’altra sera lui si è addormentato davanti alla televisione, l’ha trovato con un plaid attorno alle gambe – lo fasciava come un cannolo –, le labbra schiuse che si vedevano le mandorle e il respiro a zanzara di chi è precipitato nel sonno da una vetta di dodici, quindici, ore di pronto soccorso. C’era qualcosa in lui di piccolo che le faceva tenerezza. Si è seduta sul bracciolo del divano così com’era, il giaccone, la fascia di lana ancora sui capelli, a pensare a come sarebbe se provasse ad andare laggiù. Sa già qualche parola di israeliano e prepara i datteri col latte a colazione, l’hummus dopo aver pelato cece per cece. Se solo fosse più coraggiosa, o lui le dicesse brava. Brava farebbe da effetto fionda su una sonda dall’orbita in decadimento. Lui la chiama Juno, come la sonda spaziale, è ironico, forse crudele. Juno: pioniera, tutta occhi nell’occhio rosso di Giove. Ma forse vuole essere tenero, ha una tenerezza diversa da quella cui lei è abituata, Juno le dice con la bocca sulla nuca, Juno dentro i capelli. Vieni laggiù, Juno. Non dice mai: vieni con me. Non dice: brava, e Juno sa che quale sarà la sua fine: catturata dall’orbita, bruciata dalle radiazioni. Non è la mia gente, risponde.
Una testa, una spalla. Ancora, dice. La donna spinge con la testa bassa del toro, il marito non accarezza neanche più; è rosso, ma non è di quelli che svengono, magari un pianto. Lei ama gli uomini che piangono, il pianto è il sommo atto di seduzione. Com’è bello, dice guardando il corpo a metà del bambino. L’uomo le è grato e la abbraccia quando la donna si mette sulla pancia il fagotto grigio, ancora legato. Chissà se il bambino sente che è proprio sopra dove prima era dentro, si chiede lei. Tutta la vita in cerca di un ritorno: il corpo di una donna, il proprio paese, un lavoro pressante che imbozzoli le giornate. L’uomo ha la camicia sudata, e piange, ecco, fa anche le smorfie. Lei prende la piccola testa fra le mani, è tiepida; la dispone bene verso il capezzolo e accosta la faccia per sentire il primo hiic che fa il bambino quando si attacca. C’è tutta la promessa di qualcosa di delizioso nell’odore del seno: hiic è il suono della speranza. In cosa spera lei? si chiede togliendosi le ciabatte; si sfila la casacca blu, si stropiccia un occhio col palmo della mano come quando era piccola. Spera una piccola sorpresa come un para-spifferi colorato, o un cofanetto di tisane da farsi assieme la sera, ogni sacchettino un profumo diverso.
Le squilla il telefono; è davanti all’orologio, fruga nella borsa tendendola per uno dei manici, fa cadere il badge. E’ frenetica quando si tratta di lui – tra poco: laggiù tutto solo – ma lui è tranquillo di tornare dove prima era dentro.
Ho una sorpresa per te, le dice, indovina.
Qualcosa di morbido?
Acqua.
Caldo?
Non centra affatto.
Un’infinita stanchezza la assale, vorrebbe tornare indietro e coricarsi vicino alla donna, addormentandosi ascoltando hiic hiic. Ma lui non se ne avvede, o non gli interessa. Sarai contenta piccola Juno, le dice allegro.
Non esco stasera.
C’erano solo più due posti, sono stato fortunato.
Mi hai sentita?
Fatti la doccia con calma, che arrivo. Non so però se riesco a non dirtelo, può essere che tra un po’ ti richiamo.
Tanto sarò sotto la doccia.
Allora te lo dico subito: andiamo al planetario. Sembra di stare in mezzo alle stelle, mi hanno detto, stelle come non ne hai mai visto, e le galassie e le novae. Le comete anche si vedono. Mi farà impressione rendermi conto di quanto siamo piccoli.
Lei sorride di questo suo entusiasmo, ha preso a camminare sul marciapiede e uno spicchio di luna sporge dall’orlo viola di una nuvola. E’ vero che sotto il cielo sono tutti piccoli uguali.
Cos’hai detto? chiede lui.
Non ho detto niente.
Non ha detto niente, ha fatto solo hiic.
Biografia: quello che Sara dice di sé.
Per quanto riguarda la bibiografia, mi sento sempre un po’ imbarazzate perchè cose da dire ce ne sono pochette. Scrivo e leggo per passione, mentre ho studiato diritto che se non lo odiavo quanto meno mi faceva addormentare. Adesso lavoro nella pubblica amministrazione e il giorno più bello è quando sono di sportello perchè le persone hanno un’ innata propensione a raccontare i fatti loro e così vengono fuori storie a volte divertenti, a volte no, mirabolanti, inverosimili, magari a lieto fine e le ore passano via. Ho due bambine e ho cominciato a scrivere per loro dei raccontini dove loro erano le magiche protagoniste e facevano cose che mi sembravano fighe tipo volare sulle nuvole o fare sub nelle pozzanghere ma un giorno la grande mi ha detto: niente storia stasera, mi leggo da sola Percy Jackson; al che ho cambiato genere. Qualcosa di mio è stato pubblicato su Treracconti, Spazinclusi e Spaghettiwriteres.E tante altre cose che stanno ancora cuocendo, insomma.