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Alessandro Sesto – Lascia stare il la maggiore

by Angelo Orlando Meloni

Allora il problema non è la società ma l’universo, quindi tanto vale

ascoltare Stevie Wonder che almeno ha una bella voce.

Alessandro Sesto

“Scriveva il filosofo Emil Cioran: nella musica, quello che non è straziante è inutile”. Il secondo libro di Alessandro Sesto comincia con una citazione e la sensazione è che queste parole hanno influito in qualche modo prodigioso su di una concatenazione ricombinante di eventi che hanno portato al dna di chissà quanti artisti dello strazio alla Lars Von Trier o di musicisti destrutturati apocalittico-post-atonali che vogliono educare il pubblico. Ma tant’è, così va il mondo. Alessandro Sesto, dopo avermi divertito (ohibò, dopo averci divertito, spero) con Moby Dick e altri racconti brevi, spassosissima raccolta di libere interpretazioni dei grandi classici della letteratura, con Lascia stare il la maggiore che lo ha già usato Beethoven, sempre pubblicato da Gorilla Sapiens Edizioni, stavolta mette a fuoco un altro nobile obiettivo, la musica, e con essa la filosofia della musica. Le muse sono avvisate, Alessandro Sesto non molla l’osso e l’Arte (con la maiuscola) e l’artisticità diffusa (con la minuscola) sono di nuovo sotto attacco. D’altronde viviamo in un’epoca nella quale sotto quasi ogni praticante avvocato, e ce ne sono, santo cielo se ce ne sono, si nasconde un praticante artista pronto a buttare giù su carta la sua novella autobiografica o a strimpellare ballate alt-folk-rock-psycho-oltro-pop-jazz-blues-o-che-so-io. Se però nel primo libro a prevalere era la comicità, stavolta Alessandro Sesto ci ha rapinosamente immalinconiti. Anzi, diciamo pure che questo libro è struggente; e pure terrorizzante. Una specie di horror. Lascia stare il la maggiore che lo ha già usato Beethoven è la comica storia orrorifica di una banda scalcagnata che esegue cover nella provincia di Verona tra matrimoni, feste di vario tipo e locali non proprio alla moda. L’orrore della provincia e della musica popolare messi insieme, un’accoppiata potenzialmente devastante, quasi quanto l’orrore della metropoli e della musica indie. Inferiori solo, va detto, all’orrore della provincia e della musica indie, di cui sono diretto testimone da anni. Del quarto tipo di orrore, quello della musica popolare e della metropoli, invece, non voglio nemmeno parlare perché già mi stanno venendo le vertigini.

Chiunque possieda un granello di artisticità non potrà non essere affascinato da questi brevi e rapinosi racconti. Storiacce irresistibili di concerti che vanno male, musical assurdi che vanno ancora peggio (il racconto del musical è un gioiello di comicità), progetti per la canzone dell’estate e molto altro ancora, scanditi con una prosa cristallina e divagazioni alcolico-filosofiche sulla musica (da Frank Zappa alla lirica passando per il jazz) e su di un amore non corrisposto. Non l’amore verso lo sparuto pubblico femminile che assiste ai concerti dei musicisti raccontati dall’autore, ma l’amore di quegli stessi musicisti verso le muse, queste divinità bizzose che li hanno irretiti da giovani e poi abbandonati in quel deserto che è il mondo quando una mattina ti alzi con i capelli bianchi e ti accorgi che a nessuno frega un cazzo di Watermelon in easter hay. Macerante e ciclopica la certezza che nessuno di quei musicisti potrà mai essere non dico Frank Zappa o Jimi Hendrix, ma nemmeno Dodi Battaglia o Faso. Sterminata la desolazione regalata da tutti quei sogni musicali mentre i coetanei dei personaggi di Alessandro Sesto piantavano i semi che li avrebbero portati a indossare jeans marmorizzati infilati negli stivaletti e a sognare sfilate di Porsche a Formentera invece che nottate di concerti al Primavera Sound. È andata così per chissà quanti milioni di poveracci che amano la musica sopra ogni altra cosa, la musica giusta (cit. dal capitolo 10), costretti un dì a fare i conti con la devastante verità raccontata da una canzone pop, quella che dice “uno su mille ce la fa”, ironia della sorte.

Ma la sorte, ai cavalieri della musica, giusta o sbagliata che sia, sa anche regalare di tanto in tanto qualche sorriso. Come quando, dopo l’ennesima serata da dimenticare, “arriva un barista […] ribelle che ci porta di straforo birre e panini gloriosi, dicendoci ogni volta in segno d’intesa rock’n’roll! A Mahler nessuno portava le birre dicendo sinfonica! E ogni volta noi gli rispondiamo rock’n’roll, vecchio, rock’n’roll! E stiamo sempre meglio”. Stiamo sempre meglio, aggiungo, anche perché abbiamo letto tutto d’un fiato questo nuovo, bellissimo libro di Alessandro Sesto.

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