Adolf Hitler a distanza di anni, molti anni, fa parlare ancora di sè. Per fortuna lo sterminio del popolo ebreo non c’entra nulla, anche se quello che vi sto andando a raccontare deve far riflettere tutti, a cominciare dallo stato nel quale sta spopolando una tendenza inutile e senza senso. In Thailandia, infatti, una parte della popolazione si sta rendendo protagonista di una vera e propria “Hitler-mania”. Accessori, t-shirt, gadget, persino tatuaggi sul corpo sono, ormai, all’ordine del giorno nel bellissimo paese asiatico. Anche per i bambini la situazione non muta tanto: nei vari negozi, infatti, si possono trovare pupazzi che raffigurano il dittatore, disegnato per l’occasione, che certamente non rappresenta un grande insegnamento per i più piccini, che dovrebbero essere abituati a giocare, ad ammirare cartoni animati più sobri e meno “cruenti” (mettiamola così). Questa moda, tendenza, chiamatela come volete, sta sollevando polemiche infinite a Bangkok e dintorni anche perchè la storia, intesa come materia scolastica, non è accettata dai ragazzi thailandesi. Vorrei far capire che Hitler è il “responsabile della morte di milioni di persone, fu autore di una politica di discriminazione e sterminio che colpì vari gruppi etnici, politici e sociali (etnie romanì, popolazioni slave, testimoni di Geova, Ebrei, omosessuali, prigionieri di guerra, comunisti, oppositori politici, disabili fisici e mentali) e in particolar modo gli ebrei”. Le parole, anche per questa settimana, sono finite…
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Agosto 2014
Tornata da una settimana in Belgio, è difficile mettere insieme le opinioni formate lì sul posto: un giro breve che però ha toccato vari punti della nazione con stanza nella capitale, Bruxelles.
Non mi soffermerò sulle deliziose “casette a scalini” (come le chiamava la mia compagna di viaggio) o sui magnifici canali attraversati in barca di Brugge e Gent, né sulle acque fredde e i gabbiani malefici – rubacibo di Oostende; ciò di cui voglio brevemente raccontarvi è lei, Bruxelles, capitale del Belgio e dell’Europa.
Atterriamo a Zavantem, aeroporto principale della città, da cui si arriva in centro con un brevissimo viaggio in treno: se pure la stazione dell’aeroporto ci sembra degno scenario di un gran film dell’orrore non c’è nulla da dire sull’efficienza e la praticità del servizio, che ci porta fino a Bruxelles Midi. Qui sorge il primo problema, o meglio, il primo interrogativo: se pur perfettamente consapevoli che il Belgio è una nazione bilingue – fiammingo/francese – non eravamo pronte alla scoperta che tutto, anche i nomi delle stazioni sui display dei treni, riportano entrambe le versioni. Dovremmo scendere a Midi o a Zuid, dunque? Risolto il dubbio, comunque, arriviamo al nostro appartamento senza troppe difficoltà, se non quella di ottenere indicazioni stradali.
Quella del bilinguismo, in realtà, è un’ottima cosa: immagino tutti questi piccoli bimbi che, superato il primo momento di confusione linguistica – immaginate uno che vi canta la ninna nanna con un forte accento olandese e la sera dopo la mamma che vi sgrida in un melodioso francese di Parigi – a tre anni hanno delle conoscenze pari a quelle di uno studente al primo anno della facoltà di Lingue straniere. Ma – perché c’è sempre un ma – per alcune persone la cosa si ferma qui. Se noi italiani siamo uno dei popoli con meno conoscenza delle lingue straniere, inglese in primis, e il mea culpa è d’obbligo, i belgi che io ho incontrato non sono da meno: al mio costante “Sorry, can we speak in English?” la risposta era un grugnito e qualcosa che, suppongo, fosse “No, io parlo in francese punto.”
Sarà sicuramente un caso, sarà che comunque il francese è una lingua molto parlata, sarà che si pretende sempre tanto dagli altri – potevo sapere io il francese, sarebbe sicuramente stata una cosa ottima per me e per tutti – ma sta di fatto che io la metà delle volte ho dovuto ordinare a caso dal menù. E questo, in quella che solitamente viene descritta come una città cosmopolita, internazionale e quant’altro, non me lo aspettavo.
Il secondo interrogativo è dunque questo: ma se viene un ambasciatore giapponese a pranzo al vostro ristorante, voi grugnite e lo lasciate abbandonato alla “Kippensoep”? (per la cronaca: zuppa di pollo).
Quando sono tornata, ho notato che le persone reagivano in due modi quando dicevo loro che si, il Belgio mi era piaciuto molto, Bruxelles molto meno: chi annuiva, dicendo “te l’avevo detto” e chi invece replicava con un “ma come è possibile! E’ così giovane!”. Suppongo che la prima reazione fosse di quelli che, come me, non amano particolarmente un certo tipo di città moderna, con un centro molto carino ma intere zone completamente scollegate, “da scoprire” – e che quindi in una settimana non fai neanche in tempo ad apprezzare. Dico la verità: per me, per come immaginavo io il posto dove venivano decisi affari internazionali, il cuore della politica europea, Bruxelles è stata una grossa delusione.
Chiariamoci: io non sono un’Euroscettica, io nell’Europa ci credo eccome, ma vederla rappresentata così, con le scale del metrò (Schuman) in ristrutturazione, le gru davanti al Parlamento, il quartiere UE vuoto, triste, il centro città sporco, i mezzi pubblici che non hanno nulla da invidiare a quelli italiani (ATAC, non pensavo ti avrei desiderata), beh, vederla così mi ha fatto tristezza. E mi ha fatto anche rabbia: a tutti quelli che – a ragione – si lamentano del nostro paese, della sua disorganizzazione, degli infiniti problemi ed idolatrano tutto il resto del mondo, poco importa che l’abbiano effettivamente visto o meno, ecco, a tutti coloro consiglierei di aspettare il premetrò (una specie di metropolitana/tram sotterraneo) per più di un quarto d’ora in una stazione priva anche solo di una sedia e con i fili elettrici scoperti sulla testa, e solo poi lamentarsi – mi ripeto, seppur in maniera sacrosanta – degli interminabili lavori della metro C a Roma.
Una rapida capata ad Amsterdam (a distanza di un paio d’ore abbondanti in bus) non ha migliorato la situazione della sua vicina: la capitale olandese è uno spettacolo, senza bisogno di aggiungere aggettivi. Inutile dire che lì, intuito automaticamente che ero una turista, le persone si rivolgevano a me direttamente in un perfetto inglese.
Tornerò a Bruxelles? Probabilmente no, a meno che non ci sia qualche ragione per andare appositamente. Certo, sarebbe bello andare lì tra qualche anno, quando – si spera – la situazione politica europea sarà migliore, più stabile, e controllare se le scale del metrò avranno finito di essere sistemate.
Chissà, magari le cose procedono di pari passo.
È passato un altro 2 agosto. È arrivato, sonnacchioso e uggioso, e, così come era giunto, se ne è andato. È scivolato via. Solo un’altra croce sul calendario. L’ennesimo giorno piovoso e plumbeo di quest’estate autunnale. Dappertutto. Meno che a Bologna. Lì ogni 2 agosto è un giorno a sè. Un giorno speciale. Peculiare. Non da sempre. Da quell’agosto dell’80, ancora vivido nella memoria e nella mente dei suoi abitanti. Non si scordano le bombe. Nè i morti. O i feriti. Non si dimentica il sangue. Mai. Il dolore si cristallizza. Solidifica. Gli eventi imbevuti di lutti si fondono con la città. Ne diventano patrimoni e corroborano a forgiarne l’identità. Ebbene, ogni dannato 2 agosto la cittadinanza si stringe attorno alle vittime della virulenta barbarie neofascista. Quasi a volerli proteggere, come a dire: ” Il vostro patimento è pure nostro”. Si genera così una corrispondenza unica. Una partecipazione e una fusione struggenti. Si sarebbe portati a credere che questa dovrebbe essere la regola, o quantomeno un esempio. Un archetipo. Ma non è così. Al contrario. È un caso sparuto e raro. Pressoché unico. In Italia prevale l’oblio. La cultura della negazione. Pare sia stato accettato, tanto tacitamente quanto diffusamente, l’adagio: smemorati si vive più felici. Probabilmente la più parte degli italiani ritiene che la dimenticanza renda più gioiosi. Più allegri. O che giovi alla letizia. Certo, il giorno dell’anniversario i Social Network potranno pullulare di lugubri e retorici peana, ma dopo? Basta girare le piazze e le strade italiane per sincerarsi che ben pochi hanno idea di cosa sia successo il 2 agosto 80. È passata la ricorrenza , oggi 3 agosto cosa resta? Frasi su Facebook colme di retorica, qualche raffazzonato coccodrillo, i vani proclami del politicante di turno e poi? Nulla. O quasi. Resta Bologna. Il suo abbraccio sincero. Il suo affetto autentico. Un legame che perdura da quel terribile giorno.da quei passanti che, per primi, si gettarono nella coltre di fumo e macerie. Spinti da nulla, se non da quello spirito che ancora oggi riempie la piazza della stazione. Si prenda ciò. La piazza gremita. Il suo esempio. In netta contraddizione con la tendenza a fare tabula rasa del passato. Ricordandoci che la memoria è vita. È insita nel l’essenza stessa dell’esistenza. Solo ciò che non vive non rimembra. Un popolo dimentico del suo passato è, perciò, un malato terminale destinato a morire. Una civiltà suicida che tiene, bene salda tra le mani, l’arma che l’annienterà. L’ignoranza.
A San Valentino non si dovrebbe morire. Andrebbe vietato. L’amore è vita, la morte è la fine. Marco Pantani è morto il 14 febbraio 2004. Era un sabato sera, il suo corpo, già cadavere da qualche ora, venne trovato nella stanza del residence di Rimini in cui viveva da qualche giorno. Overdose, nessun dubbio. Il Pirata ucciso dalla cocaina, un campione dannato che non è riuscito più a ritrovare se stesso e che si è perso nei meandri della droga. L’unica, il giorno dei funerali – guardate quante persone assistettero alla cerimonia per salutarlo -, a urlare il proprio sospetto è stata la mamma: “Me l’hanno ucciso”. No, per la giustizia e per i giornali la verità è un altra, quella che è rimasta scolpita per dieci anni. Ora, grazie al lavoro degli avvocati e della ferrea volontà dei genitori di Pantani di ricercare la verità senza la parvenza minima di un dubbio, ci sarà una nuova indagine. Non si è ucciso Marco, è stato ammazzato. Troppi sospetti, diversi coni d’ombra. Tutti ora a dire che la Procura di Rimini lavorò male, tutti a riportare i particolari di quei giorni. Pochi, pochissimi lo hanno fatto in questi anni: troppo facile fermarsi alla verità giudiziaria, riportare le carte e fermarsi lì. Nessuna inchiesta giornalistica, ora i titoloni. E però la mamma del Pirata ha ragione. Suo figlio è stato ucciso, più volte: forse quella sera, sicuramente cinque anni prima, quando giornalisti, opinionisti attaccarono senza ritegno Marco Pantani. Era il dopato (quando non lo era), era il simbolo del ciclismo che crollava. E noi siamo bravi a scendere dal carro e sputarci sopra. Lo hanno fatto molti, persino direttori, compreso quello della Gazzetta, con parole pesanti come pietre. Uccisero l’anima di Pantani: lì si fermo la sua corsa. E io preferisco pensare al Pirata dal sorriso timido, triste, al grande campione che spianava le scalate. Ora le risposte le meritano i genitori e i pochi che hanno creduto a un’altra verità. In silenzio, però, quello che per dieci anni ha ingiustamente e colpevolmente regnato.
Inchiostro - Recensioni di libri indipendenti e non.Inchiostro Fresco - Recensioni di libri letti da Gianluigi Bodi
Estate indipendente – 5 libri sul calcio.
written by Gianluigi Bodi
Se siete di quelli che non riescono ad abbandonare il pallone nemmeno sulla spiaggia, se in montagna vi disperate perché non riuscite a trovare un campo da calcio che non sia in pendenza, se vi ritrovate a guardare le repliche delle partite dello scorso campinato anche se sapete a memoria il risultato e pure ogni singola azione saliente, ecco 5 libri che parlano di calcio, che potreste portare con voi anche in vacanza e che vi faranno tirare avanti fino all’inizio della prossima stagione.
1) Un giorno triste così felice – Lorenzo Iervolino. 66thand2nd
Ecco, se amate il calcio e siete nostalgici dei bei tempi che furono, se i vostri ricordi calcistici coincidono con la vittorio della nazionale italiana contro il Brasile ai mondiali di calcio dell’82, questo libro fa per voi. Racconta la vita di uno dei più grandi calciatori di sempre, Socrates e la racconta in un modo delicato e poetico. Impariamo a conoscere l’uomo prima che il calciatore.
2) L’ultimo minuto – Marcelo Backes. Del Vecchio Editore
Sempre di calcio si parla. Di calcio contemporaneo. Joao è rinchiuso in carcere, per un crimine che ci sveleranno alla fine. Ad ascoltarlo c’è un seminarista.
3) Calcio e Potere – Simon Kuper. ISBN Edizioni
Simon Kuper è uno dei giornalisti sportivi più stimati al mondo. Le sue opere sono tradotte in decine di paesi e l’Italia, terra del calcio, non fa accezione. Calcio e Potere è una raccolta di articoli che girano attorno al calcio analizzando i rapporti che questo sport ha con la politica e, più in generale con il potere. Alcune delle cose che leggerete non vi piaceranno perché mettono alla berlina un sistema calcistico che ha macchie oscure.
4) Dallo scudetto ad Auschwitz – Matteo Marani. Aliberti Editore
Questa è la storia di Arpad Weisz, allenatore di calcio in Italia negli anni 30. Una carriera meravigliosa, idee innovative, benvoluto da tutti e grande teorico del calcio. Fino all’avvento del nazismo, un’ombra lunga che inizialmente bracca Weisz e la sua famiglia, poi la accerchia e alla fine la distrugge. Se non vi fosse chiaro, non è un libro sul calcio, è un libro su quanto possa essere marcio l’essere umano.
5) La linea di fondo – Claudio Grattacaso. Nutrimenti editore
Leggerete la storia di Freccia, un calciatore che avrebbe potuto diventare un campione e che invece si trova a trascinare stancamente la propria carriera nei campi delle leghe minori. Una storia in cui il calcio fa da sfondo ad un’esistenza incomplera, una storia raccontata in maniera eccelsa da Claudio Grattacaso.
Un’altra moda, un’altra faccenda difficile da raccontare. Non perchè sia triste, tragica o altro, ma vedere certe foto, fa venire voglia di pensare: per qualche motivo? Settimana scorsa ho parlato, insieme a Senzaudio dei gioielli che vengono “indossati”, diciamo così, dagli occhi. Una moda americana, ma anche asiatica che sta spopolando nel resto del mondo e, scommetto 2 euro, tra non molto la vedremo anche in Italia. Sempre gli occhi, una parte delicatissima del nostro corpo umano, sono i protagonisti di un’altra tendenza che farà certamente discutere. Pensate, i tatuaggi tanto belli da vedere (dipende dai punti di vista) vengono disegnati nel bulbo oculare delle persone, proprio coraggiose nel farsi infilare un ago nell’occhio. Accade in Canada e, ne sono certo come il dolce domenicale, questo disegno, colorazione, chiamatela come volete, in fretta e furia si estenderà anche negli occhi delle persone europee. Oscar Wilde diceva “Che cosa è una moda? Da un punto di vista artistico, di solito è una forma di bruttezza talmente intollerabile da doverla cambiare ogni sei mesi”. Vi lascio con questa frase.
Ps: Se volete tatuarvi, fatelo su una normalissima parte del corpo.
Vi siete mai chiesti come funzionano le password sui vari servizi e scambi on line? Spendiamo due parole su questi sistemi di sicurezza che oggi sono comunemente usati a vari livelli. Le password più semplici che esistono, sono quelle alfanumeriche per accedere a diversi servizi in rete, ” digita nome e password” probabilmente è la scritta più vista sui nostri monitor. Questo tipo di accesso si basa sul concetto di “parola chiave”, la combinazione di numeri e lettere che avete immesso quando vi siete iscritti al sito o al servizio, viene registrata in un data base che poi confronta la password digitata ad ogni accesso con quella in memoria; lo stesso sistema è usato anche per i pin delle carte di credito. Questo sistema di protezione è molto valido, infatti la combinazione di lettere e numeri che digitate è impossibile da indovinare a caso, questo sistema è vulnerabile solo ai furti delle banche dati di deposito o dei singoli utenti. Il passo successivo è quello delle password numeriche casuali, (le chiavette delle banche per capirsi) questi sistemi ingegnosi, sfruttano dei processi matematici che operano sul dispositivo dell’utente, i numeri risultanti, sono la combinazione di un numero a caso, di un algoritmo matematico costante (le cui componenti variano da utente a utente) e di una cifra associata al vostro conto che è conosciuta dalla banca. In questo modo, la cifra che vedete apparire sulla vostra chiavetta viene processata dal computer del sito della banca (con il vostro algoritmo personale) e confrontata con il numero associato al vostro conto. Questa protezione offre una tripla sicurezza per tutte quelle transazioni che richiedono un grado più alto di affidabilità.
Quando poi si entra nel mondo dell’alta finanza o della sicurezza nazionale, la matematica e la fisica la fanno da padrone (e c’è chi pensa che i matematici e i fisici siano sfogati disoccupati). Una buna parte dei sistemi di sicurezza di alto livello si basa sui numeri primi, se vi ricordate le lezioni delle medie o superiori, sapete che un numero primo può essere diviso solo per se stesso e per uno, quindi è un codice di sicurezza naturale in quanto io posso moltiplicarlo per qualsiasi cifra voglia e poi spedirlo in rete e solo chi avrà lo stesso numero che ho io potrà scomporre pila cifra inviata in modo corretto e quindi accedere ai dati criptati. Molte volte gli stessi dati (che sono delle serie di numeri, per il computer) sono mandati combinati per il numero primo in modo che solo un ricevente la stessa chiave di crittografia possa ricomporre il messaggio originale. Ultima frontiera della crittografia poi è la meccanica quantistica, alcuni sistemi di codice basati su questa complessa branca della fisica sono già usati a livello accademico e altri sono in sperimentazione, il grosso problema di questi metodi è la messa a punto di un sistema di trasmissione dei fotoni con un alto grado di precisione, per permettere una “lettura” efficiente del pacchetto di particelle da parte del ricevente. In linea di principio, senza entrare nei meandri della fisica dei quanti, questo tipo di crittografia si basa sul principio di indeterminazione di Heisenberg il quale dimostra che non si possono misurare, su scala quantica, due caratteristiche accoppiate di una particella, senza alterare le caratteristiche delle particelle osservate; ad esempio non è possibile misurare, sia la velocità che la posizione di un fotone contemporaneamente; in modo più esteso poi, il principio dimostra che un osservatore che misura un sistema quantistico, interagisce con esso è quindi lo modifica. Che cosa comporta tutta questa teoria, in un sistema di crittografia? Molto semplicemente, se in una linea protetta da questo sistema di crittografia quantistica, si cerca di analizzare il codice, esso cambia istantaneamente i modo casuale e non è più decifrabile correttamente, in oltre il ricevente vedrà che il codice è cambiato e quindi qualcuno si è intromesso. Questo tipo di codice quantistico sembra essere il santo Graal della crittografia in quanto impossibile da decifrare, anche se qualche laboratorio ha già messo in dubbio l’inviolabilità di questo sistema, non sono state fornite prove concrete di una possibile tecnica di decifrazione..
“Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia”. Così cantava Francesco De Gregori nel 1982 ne “La leva calcistica della classe ’68”, esortando il piccolo Nino a non aver paura di sbagliare un calcio di rigore.
Coraggio. Altruismo. Fantasia. Ecco, se c’è nel gioco del calcio un ruolo che più di ogni altro incarna ed esalta al massimo queste qualità, è sicuramente quello dell’ala.
Coraggio nel cercare ripetutamente il dribbling e nel puntare il terzino avversario nel tentativo di superarlo, avendo spesso a disposizione un lembo ristretto di campo, al confine con la linea laterale.
Altruismo nel proporsi continuamente ai compagni di squadra dettando loro il passaggio, nel ripiegare a difesa della propria metà campo e, soprattutto, nel distribuire cross e assist al bacio agli attaccanti.
Fantasia, perché l’ala è spesso una sorta di fantasista decentrato, un giocatore estroso e ricco di talento, a volte solitario quando si estranea per lunghi tratti dal vivo dell’azione, ma capace di fiammate improvvise e decisive.
Pier Paolo Pasolini paragonava il gioco del calcio al linguaggio: come c’è un linguaggio prosastico e un linguaggio poetico, affermava, così il calcio ha i suoi prosatori e i suoi poeti. E il dribbling, la caratteristica principale dell’ala, per lui ne rappresentava per l’appunto, insieme al gol, uno dei momenti più poetici.
“Il sogno di ogni giocatore (condiviso da ogni spettatore) – scriveva Pasolini – è partire da metà campo, dribblare tutti e segnare”.
Eppure negli ultimi anni, forse addirittura decenni, l’ala pura sembrava quasi scomparsa dai radar del calcio italiano e, più in generale, internazionale.
Un ruolo antico, nato negli anni ’30 del secolo scorso con il famoso Sistema (o WM dalla disposizione in campo dei giocatori, un 3-2-2-3), quando le ali erano in pratica degli attaccanti laterali.
Un ruolo che ha avuto degli interpreti straordinari, come Manè Garrincha, per molti la più grande ala destra della storia, con la sua zoppìa congenita e i suoi dribbling, sempre uguali eppure sempre diversi.
E poi Matthews, Hamrin, Jair, Best, Gigi Meroni, Domenghini, Claudio Sala, Causio, Bruno Conti, Luis Figo, il Cristiano Ronaldo prima maniera e tanti altri.
Con l’avvento del 4-4-2 sacchiano e dei suoi vari epigoni, imperniati sulla tattica e sugli schemi, l’ala è stata sostituita per lo più da un esterno di centrocampo, un giocatore spesso più di corsa che di talento (ma c’erano anche le eccezioni come Donadoni), attento a non sbilanciare la squadra e a non trascurare la fase difensiva.
Anche il 3-5-2 ha bandito l’ala pura, prediligendo sugli esterni giocatori di “fatica”, con il compito di coprire tutta la fascia, certo preziosi per salvaguardare l’equilibrio tattico, ma meno lucidi ed efficaci nella fase offensiva, trattandosi spesso di terzini avanzati (il Lichsteiner della Juve di Conte o i Darmian e De Sciglio della Nazionale di Prandelli in Brasile ne sono degli esempi).
Nell’ultimo periodo sembra esserci stata, però, un’inversione di tendenza: le vecchie ali offensive dal dribbling facile, i cross “pennellati” e anche una certa confidenza con il gol, sono tornate improvvisamente di moda.
Ai recenti Mondiali, ad esempio, sono stati assoluti protagonisti il colombiano Cuadrado e l’olandese Arjen Robben. Quello scorso è stato in Serie A il campionato della consacrazione per un’ala classica come Cerci, spostato dall’allenatore del Torino Ventura qualche metro più avanti, in appoggio alla prima punta, e in grado di segnare 13 gol e fornire quasi altrettanti assist.
Ma è stato anche il campionato di Gervinho, di Callejon e di un esterno di centrocampo ormai convertitosi in ala come Candreva. E il colpo finora più costoso del calciomercato di casa nostra è stato l’acquisto da parte della Roma di Iturbe, trottolino di fascia rivelazione della scorsa stagione con la maglia del Verona.
In un calcio moderno comunque attento all’organizzazione di gioco e alla disciplina tattica, gli allenatori hanno riscoperto l’importanza di affidarsi all’inventiva e alla fantasia delle ali, alle loro discese ardite e risalite, alla loro capacità di procurare la superiorità numerica o di allargare la linea di difesa avversaria, favorendo gli inserimenti centrali dei compagni.
E così la fascia sta tornando a ripopolarsi di giocatori tecnici, veloci e talentuosi e uno dei ruoli più romantici del calcio – un po’ attaccante, un po’ centrocampista e un po’ fantasista – che sembrava ormai quasi dimenticato, ha ritrovato la propria identità.
P.S. “… Il ragazzo si farà, anche se ha le spalle strette. Questo altro anno giocherà con la maglia numero sette”.
Il 7, il numero storico dell’ala destra. Mi piace immaginare che anche il Nino della canzone di De Gregori sia poi diventato un giocatore tutto scatti, dribbling, tecnica e, ovviamente, coraggio, altruismo e fantasia. Perché è da questi particolari che si giudica un’ala.
E pare proprio sia tornata.
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