Da un po’ di tempo a questa parte l’apocalisse Zombie è diventata fenomeno trendy. Dopo gli exploit di Romero negli anni addietro, grazie alla saga di Resident Evil è ripartito il genere. Per limitarci alla stretta attualità, è da poco è iniziata la quarta stagione della serie “The Walking Dead”, e in Dvd è disponibile il film “World War Z” firmato Brad Pitt. Diversi film, diversi pareri, diverse storie… ma la domanda che assale la gente è una sola: cosa ci insegna il genere Zombie?
Con solerzia e profonda incoscienza, ecco dieci consigli utili per sopravvivere all’invasione dei morti viventi:
1. Restate in gruppo. E’ la prima regola: uniti si vince. E si sopravvive. E poi, da soli, come potreste fare le puttanate che immancabilmente in un film di Zombie compie un gruppo di sopravvissuti, indipendentemente dalle probabilità di salvezza?
2. State alla larga dal tipo con gli occhialini. Chi ha gli occhialini è sempre quello istruito e con una posizione rispettabile all’interno della società. Quando la società crolla, immancabilmente va fuori di testa e si fa prendere dal panico, facendo morire qualcuno del gruppo, minando l’autorità del tipo che sa cosa si deve fare e facendosi ammazzare da infame, dopo aver tradito tutti. Se siete capitati durante un’epidemia Zombie e tra voi vedete qualcuno con gli occhialini, sparategli subito. Deus lo Vult.
3. Trovatevi un nero. I neri sono grezzi, forti fisicamente, sgobboni, parlano da duro, non trombano mai la protagonista del film e muoiono da eroi, salvando tutti grazie alla forza fisica o a un sacrificio epico. In pratica, sono loro che fanno tutto il grosso del lavoro e poi sul finire della storia si levano dalle balle salvandovi pure la vita. Quelli neri sono utili: se sono Americani, sanno anche come si fa partire una macchina senza le chiavi, ma quello, se venite da certe zone della periferia metropolitana, non è un problema. Non esistono neri con gli occhiali.
4. La tipa precisina, innocente e carina è sempre destinata a finire sbranata. Non perdeteci tempo: già è quasi di sicuro una f*** di legno che non la smolla mai, ma poi tendenzialmente non è mai una grande sgobbona e non sa usare il machete, come ogni buona donna dovrebbe saper fare in caso di apocalisse, quindi non è di molta utilità. Meglio usarla per sfamare bocche, che averla come bocca da sfamare.
5. I cinesi fanno comodo. Sono piccoli, rapidi, funzionali. Difficilmente vanno nel panico. Forse perchè sono razionali, forse perchè sono comunisti e mangiano i bambini, quindi sono abituati al cannibalismo: non l’ho mai capito di preciso. Comunque tutto sommato sono validi e utili in caso di apocalisse. Dicono anche che siano bravi in matematica, che nel caso può tornare utile se dovete dar ripetizioni ai figli. Di solito sopravvivono insieme ai due protagonisti, per diventare un po’ i tuttofare nel post-apocalisse.
6. Occhio ai latinos. Se assomigliano all’omino Bialetti e tengono famiglia, di solito vi chiameranno senor e dovrete tenergli i figli quando verranno mangiati. Se invece assomigliano a Machete sono più che funzionali, anche se tendenzialmente potrebbero tagliarvi la gola per rubarvi la merendina.
7. La chiave è sempre la gnocca: se la gnocca del gruppo non vi fila neanche di striscio, non siete voi il protagonista. Significa che in un modo o nell’altro morirete. In maniera più o meno anonima o eroica, ma di certo morirete: meglio formare un nuovo gruppo con una magari meno gnocca ma più sicura. Se la gnocca del gruppo vi fila, fate due conti: se è capace di ammazzare gli zombie, significa che voi sarete l’ultimo del gruppo a morire, magari salvandole la vita, prima che l’epidemia venga debellata e lei resti sola, alla ricerca di qualcuno da trombare che magari se ne è stato per tutto il tempo chiuso in casa a giocare a Farmville. Se non è capace di ammazzare gli zombie, allora il protagonista siete voi: prendetevi una pausa da tutto questo, salutate gli altri del gruppo e spassatevela. Tanto la farm ve la controlla il cinese, al limite.
8. Le bambine creano sempre dei problemi. Piacciano o non piacciano, sono inevitabilmente destinate a perdersi o a infettarsi, costringendovi a ricerche disperate, lotte all’ultimo sangue e magari pure a sacrificarvi nel tentativo nobile di salvare qualcuno che, senza di voi, è destinato a durare il tempo di un vassoio di pizzette durante un happy hour in Somalia. In aggiunta, siccome non si sopravvive mai a un film zombie in più di tre, per salvare lei dovreste rinunciare alla gnocca o al cinese. Non ne vale la pena: se avete una bambina nel gruppo, affidatela a quello con gli occhialini e alla tipa precisina: l’uomo non separi ciò che Dio ha inteso come antipasto, pasto e dessert.
9. Armi, armi, armi. E’ sempre stato il mio cruccio: in America sono messi bene, con più armi che cristiani nella nazione. Da noi diventa dura, a meno di recuperare la lupara del nonno o quella di qualche vicino di casa meridionale che si aggira per il paese in coppola, baffetti e gillet . Se siete meridionali e andate in giro in coppola, baffetti e gillet, credo non ci siano problemi di sorta: mai visto zombie a Palermo. Mirate sempre alla testa. E’ il loro punto debole. Alternativa: fategli ascoltare l’ultimo cd di Justin Bieber. Avvertenza: più gli piace il cd, meno danni gli fate se mirate alla testa.
10. Evitate i posti sicuri. Tutti i protagonisti di un film zombie si nascondono in case con ante, tapparelle, cancellate e recinzioni fatte con i playmobil o che possono essere abbattute con un rutto, come con quelle dei tre porcellini e del lupo. Non ho capito bene il perchè, ma è un must. E se entrate in qualsiasi posto buio e silenzioso e non vedete nessuno, lo zombie apparirà all’improvviso facendo “bubusettete!” o qualcosa del genere.
Avvertenza: questo articolo prende in giro volutamente gli stereotipi del genere Zombie. Non ci sono intenti razzisti in quanto scritto, ma solo la volontà di prendere in giro la banalità e i luoghi comuni che stanno rendendo monotono un genere tanto affascinante.
Ottobre 2013
Senza troppi giri di parole: sono in disaccordo con il proliferare di reality show e la promozione esclusiva di personaggi che escono da questi programmi. Il programma dev’essere un mezzo, un’opportunità mentre ora, soprattutto in Italia, è la regola, l’unica. C’è da dire però che la trasmissione madre, X Factor, non è sbagliata nella sua idea ma nel suo sviluppo e post sviluppo. Le audizioni, l’unico momento che divoro con attenzione, sono un catalizzatore di emozione e talento; sia il talento da figuraccia, tanti son troppo convinti di quello che fanno e come lo fanno, sia il talento puro e/o grezzo che si trova in tanti personaggi.
Non è un voler denigrare l’Italia a tutti i costi ma la differenza di qualità pura, di potenza, di talento tra Italia e gli altri paesi che si trovano facilmente su youtube è netta e sincera. L’anno scorso ha trionfato Chiara Galiazzo, brava per l’amor di dio, una voce spettacolare, una tra le poche che possono competere con voci nere e caratteri profondi stranieri. Se però il post-sviluppo è affidarla nelle mani dei soliti “ghostwriter” che si affidano ancora al mito di Mogol, unico nel suo genere ma ormai sorpassato, la noia è assicurata. Pausini, Ramazzotti, Ferro, etcetc sono ancora su questa terra e ci auguriamo lo restino ancora a lungo, ma non abbiamo niente di diverso da offrire?
Quando invece scrivendo “X Factor 2013 audictions usa” ci imbattiamo in quelli che sono i loro protagonisti di quest’anno, lo stupore e le varie considerazioni “questo in finale ci arriva sicuro” si presentano quasi per ogni concorrente in gara che passa le selezioni. Carlos Guevara, Alex e Sierra, AkNu, Lillie McCloud, Rachel Potter e via dicendo nel nostro paese non avrebbero rivali. Siamo così inferiori? Forse, anche se ci sono un po’ di considerazioni da fare.
L’America (ma in UK non è molto diverso) nella sua plurità di razze, provenienze, etnie e culture di sicuro ha dalla sua un bagaglio di possibilità maggiore. Quando nel 2012 esce dalla Lousiana un ragazzo come Willie Jones, come ha detto un mio caro amico “quella è roba loro, c’è poco da fare”. Chris Rene nel 2011 invece ci fa vedere sia l’America magnanima che da una seconda chance a un uomo discretamente disperato ma ci da una prova dei quei limiti di formazione dei concorrenti che vi dicevo, tanto che il primo commento di youtube è “completely i’ve seen the new version of this song and ive probally listened to this version about 50 times and the new version 1 time”.
Seconda considerazione è che da noi ci si fa più problemi a presentarsi o lo si considera una perdita di tempo perché tanto passano solo i raccomandati. E ci sta. All’estero di sicuro ci credono di più a proporre qualcosa di alternativo. Qui le variazioni sono davvero pochissime. Il fatto che Ics, su cui c’è stato il grande lavoro di Morgan, sia arrivato in finale è sintomo di quanta pochezza era presente sul palco. Ma allo stesso bootcamp italiano concorrenti che sbagliano canzoni, concorrenti che non si sono preparati la notte, concorrenti che si fan prendere dal panico. Rassegnazione e poca voglia?
L’inglese e la sua padronanza, quasi perfetta, sono un obbligo per chi vuole davvero ambire a diventare una international star. E purtroppo gli italici su questo punto sono in difficoltà. Siamo uno dei paesi col peggior inglese della storia. Ma nell’arco di 20/30 anni le nuove generazioni saranno di sicuro più padrone del mezzo e forse si assisterà a quella svolta musicale in grado di farci eccellere anche in ambientazioni diverse dalla “Canzone”, che nient’altro è che una variazione italiana della musica pop. Deve restare un patrimonio da difendere ma non l’unica alternativa musicale italiana. Qualche candidato?
Una cosa che di sicuro non abbiamo da invidiare all’estero sono invece i giudici. Ventura a parte, gli altri, sia quest’anno che in passato, rappresentano quell’x factor che il programma va cercando. Il simpaticissimo Mika, star internazionale, a suo agio nella veste di giudice severo, l’ottimo e preparatissimo Elio e l’estroverso ma genialissimo Morgan sono un trio maravilla. Lo stesso Morgan è poi la prova tangibile di chi, pur avendo talento, è sempre stato snobbato (o quasi) grazie a una campagna pubblica denigratoria. E questo ci porta anche la quarta e ultima considerazione da fare: per migliorare chi canta c’è da migliorare chi ascolta.
Giorni caldi per la televisione italiana. La nuova stagione è iniziata senza grosse novità di rilievo. In tempi di difficoltà economica, soprattutto per quelle aziende che investono nel mondo della comunicazione con la pubblicità, si va sul sicuro, sull’usato garantito e si bada al risparmio. Lo scontro, rigorosamente in diretta, tra Brunetta e Fazio ha innalzato la temperatura e aperto un nuovo fronte di polemica. Che tanto nuovo non è, perché ciclicamente si ritorna a parlare del cachet dei conduttori e degli ospiti. Succede con Sanremo, dove Grillo “minaccia” di andare, il rito assoluto ed eterno della televisione italiana, l’epicentro delle chiacchiere e delle polemiche
. La Rai è un’azienda pubblica – noi paghiamo il canone -, ma anche una Spa, e quindi privata. La questione sugli stipendi dei conduttori appare fuori tiro. Se Fabio Fazio e altri garantiscono con le loro trasmissioni entrate pubblicitarie considerevoli – con le quali vengono pagati i loro ingaggi – la loro presenza è da considerarsi strategia per qualsiasi azienda. Ovvio, con un tetto economico. Perché non è tempo di follie. Ma la questione pare essere un’altra. Gli attacchi, che possono sembrare strumentali e anche qualunquisti, vengono indirizzati nei confronti di conduttori politicamente schierati. Fanno un uso “politico” dello spazio pubblico? Se credete di sì, criticate loro per questo. Senza filtri. Ma soprattutto pensate al vero spreco e al limite reale della televisione di Stato. Gli editori sono i partiti, la Commissione di Vigilanza Rai è l’organismo che controlla l’operato, i membri del Cda vengono nominati su indicazione delle segreterie o dei leader delle formazioni politiche. I funzionari, non tutti, sono al loro posto perché appartenenti a qualche cordata. Questo è il male di cui soffre la Rai. E con lei quasi tutta l’Italia.
Si parlava della nuova stagione iniziata all’insegna dell’usato garantito e dei talk show. Si pensi all’exploit di Morandi, altra istituzione del nostro Paese. In televisione non si ha spazio per la sperimentazione. Bisogna andare sul sicuro. Fare ascolti, perché il pubblico è il giudice supremo. Nelle televisioni commerciali, come quelle pubbliche. Ed è il motivo per cui una trasmissione alquanto insignificante come Uomini e Donne continua ad andare in onda. E’ la più vista nella propria fascia oraria. Perché De Filippi dovrebbe cambiare? E poi i talk show. Tutti uguali nella propria diversità. I politici ospitati, il pubblico schierato che applaude o fischia, l’esperto di turno. Cambia lo stile del conduttore. Però sono tutti uguali e lasciano il telespettatore nella condizione in cui lo hanno preso. Eppure le aziende ci puntano. Costano poco. E questo è il loro principale merito.
Il corpo umano è un guanto senza cuciture, fatto per adattarsi ad ogni forma e dimensione, sa farsi piccolo e grande, tondo o quadro, smentendo ogni proverbio popolare sulla staticità ineluttabile della geometria nell’ atto di vivere.
Così si diventa flessibili se il mercato lo chiede, ci si vende al migliore offerente, ci si adatta per sopravvivere.
Non voglio raccontare storie di precariato giovanile, voglio raccontare invece del posto fisso e riflettere su come l’esistenza del lavoro precario danneggi indirettamente anche chi un contratto a tempo indeterminato ce l’ha.
Questa è la storia di G., una storia come tante.
G. ha un impiego relativamente buono, dopo i 6 mesi di stage Post Lauream ottiene un contratto a tempo indeterminato, l’area d’impiego è quella per cui ha studiato; lo stipendio è onesto e gli permette, soprattutto, a soli 28 anni, l’affitto di una camera singola dopo anni di convivenze forzate in una stanza per due.
Quando G. viene a sapere del contratto a tempo indeterminato non ha voglia però di brindare ma di piangere, perché forse quell’impiego, seppur attinente al suo titolo di studio, seppur dignitosamente retribuito, per una vita intera non vuole proprio mantenerlo.
Tutto questo però non si può dire ad alta voce ma solo pensarlo, e neppure troppo spesso, perché sua madre è disoccupata, il suo migliore amico in cassa integrazione da una vita.
Come ho detto, accade che il precariato logori chi non ce l’ha, gli impedisca di trovare il guanto perfetto, quello che calzi senza forzature, gli inibisca il desiderio, tradendo tutto quello che ci viene insegnato fin dall’asilo, per il timore di chiedere troppo, di peccar d’ingratitudine.
Prima a scuola poi all’Università ci instillano la sete di sapere, la brama di crescere; prima di istruirci su come i Romani costruirono l’Impero ci trasmettono, e non sempre con successo, la curiosità; poi la vita ti insegna a contrattare, ad essere diplomatico, fino a correre il rischio di barattare il posto fisso con un’anima precaria, un’anima senza desideri, un passo instabile e rassegnato di chi non sa dove vuole andare e neppure si interroga a tal proposito.
Se dovessi onorare il clichè della canzone generazionale da canticchiare sotto l’ombrellone, comporrei così:
“Siamo la generazione dall’Anima precaria,
siamo Incastrabili, saziabili, debitori di promesse,
e arrabbiati ci crogioliamo al sole caldo
di un paese in cui, se è difficile andare avanti,
figuriamoci tornare indietro.”
Ma, per fortuna, non sono un cantautore.
La polemica su Erick Priebke, nazista mai pentito, che fino all’ultimo ha rivendicato di aver soltanto “obbedito agli ordini”, sta tirando fuori, ancora una volta, il peggio del popolo italiano.
Abbiamo trovato un mostro (non “il” mostro: uno dei tanti) e adesso che non c’è più ci riscopriamo tutti “partigiani”, attivissimi nell’impedire un funerale.
Cosa pensare di Priebke? Nulla. La storia ha parlato. Ha parlato di stragi, vecchie di 70 anni, e di connivenze, durate fino a 20 anni fa. Ha parlato di ideologie che sono state superate e sconfitte dalla storia, non dalla guerra. Tutto il resto, è solo il delirio di un vecchio in punto di morte, disperato e aggrappato all’ultimo tentativo di giustificare un’esistenza che la storia ha già ben giudicato come infame e vigliacca.
Ma Priebke, oggi, per l’Italia è “il mostro”. Facile: è morto. Ma quanti Priebke ci sono in Italia, oggi? E’ forse meglio chi ha messo le bombe a Piazza Fontana, a Bologna, a Firenze, o chi ha aiutato a nascondere i responsabili di Ustica, le stragi di mafia e tutte le belle cose che passano sotto silenzio?
Fa più schifo (passatemi il termine) un vecchio rincoglionito (passatemi il termine) di 100 e passa anni, che blatera cose senza senso e senza logica, o il mafioso che ha strangolato un bambino, lo ha sciolto nell’acido, ha fatto saltare in aria Falcone e Borsellino, ha commesso più di 100 omicidi e che gode dei benefici di “pentito”?
Io sono un po’ scettico.
Da cristiano, penso che Erik Priebke non mi riguardi più. Da ateo, penserei che l’infamia lo coprirà nei secoli come lo ha coperto negli ultimi 70 anni.
Oggi però credo che pesi meno la responsabilità di un uomo come lui di quanto pesi la responsabilità di un paese per quanto accade ogni giorno.
Per questo, mi chiedo se davvero sia più importante sensibilizzare le masse, attraverso i media, sui pericoli e gli orrori del nazismo (che non nego), rispetto alla necessità di far conoscere la storia di oggi, la storia degli ultimi trent’anni, che troppo spesso si ha paura di affrontare, perchè ci costringerebbe a guardarci allo specchio, per capire se davvero oggi siamo ancora partigiani del nostro tempo, difensori del nostro paese e della libertà.
Vi voglio parlare di un libro. Si tratta di Cavie di Chuck Palahniuk. Per chi non lo sapesse è l’autore dell’omonimo libro da cui è stato tratto Fight Club. L’ho preso per caso, in libreria. Non sapevo chi fosse l’autore, ero completamente ignorante su questo. Ma, come mi piace sostenere, se passeggi un po’ in una libreria sono i libri che ti chiamano, che scelgono te.
Cavie è decisamente bizzarro (come, ma lo scoprirò poi, tutti i libri di Chuck). E’ la storia di un gruppo di scrittori che, dopo aver risposto ad un annuncio, si ritirano in un ex teatro per tre mesi, senza avere contatti con l’esterno, vitto e alloggio gratuiti, devono solo pensare a scrivere. Sono alla ricerca del loro capolavoro, convinti che solo l’isolamento possa dare l’ispirazione giusta. Ma in realtà sono prigionieri, anzi cavie, del piano ideato da colui che aveva messo l’inserzione, anziano sig Whittier. Alla storia principale si alternano i racconti degli scrittori/cavia, scritti con lo stile ruvido di Palahniuk.
Questa, molto in sintesi, è la storia. Ma perchè vi voglio parlare di questo libro?
Innanzitutto mi ha fatto conoscere Palahniuk. Le parole dei suoi libri, e questo in particolare, sono di carta abrasiva a grana grossa, e hanno la capacità di entrare dagli occhi per scartavetrarti anima e intestino. Bisogna avere uno stomaco forte per leggerlo, non c’è che dire. Le storie sono realistiche quanto incredibili, mi ricordano gli episodi di “Ai confini della Realtà”, che guardavo da ragazzino (che sto riguardando, tra l’altro, nella serie originale, ma di questo ne parleremo)..
Nascosta tra le righe, poi trovo una critica alla società dei reality. Sia chiaro non è una critica ai reality show, anzi vi confesso che molti mi piace guardarli, ma piuttosto a certi protagonisti, disposti a tutto pur apparire e, nel libro, di trovare la storia perfetta.
Ma in fondo è una critica ai valori della società moderna. Ricchezza, bellezza, un buon lavoro, ciò che fin da piccoli desideriamo, non sempre giustificano i mezzi usati per raggiungerli. Ed è questo che troviamo nei racconti delle cavie. Fredde e grottesche racconti finalizzati al raggiungimento di un piacere, fisico o mentale.
Mi è piaciuta molto anche la struttura narrativa, ricorda in un certo senso il Decameron di Boccaccio, gli studi superiori non sono stati inutili.
Anche se la parte che fa da collante ai racconti è un po lenta inizialmente. Forse volutamente, per spostare l’attenzione del lettore sui racconti, i veri protagonisti.
Quando leggo un libro spesso penso a quella che potrebbe essere una trasposizione cinematrografica, da questo mentre lo leggevo ho pensato che ci si potrebbe fare una serie tv, una specie di lost ambientata in un teatro abbandonato.
Se avete il giusto pelo sullo stomaco, vi piacciono le storie estreme ve lo consiglio (attenzione all’inizio, è davvvero per stomaci forti). Leggetelo con la mente molto aperta, mi raccomando. Se l’avete già letto mi piacerebbe saper il vostro parere
Ora siamo noi italiani ad andare in Albania. Per studiare. A Tirana c’è l’università privata Nostra Signora del Buon Consiglio, il solo ateneo locale che rilascia lauree congiunte con alcune del nostro Paese, come Tor Vergata. Funziona molto semplicemente. Sostieni gli esami (in italiano), ti laurei e sei un laureato anche per l’Italia senza nessuna altra pratica.
Ecco quindi che 596 ragazzi, tutti italiani, si sono presentati a Tirana per sostenere il test d’ingresso per Medicina e Odontoiatria. Settimana prossima toccherà a Fisioterapia e Infermieristica. Hanno fallito da noi, cercano fortuna altrove. Anche perché in Albania il voto della Maturità conta ancora. Di questi 596 solamente in 150-160 passeranno, gli altri dovranno mettersi l’animo in pace, oppure riprovarci l’anno prossimo.
Ad accompagnare i ragazzi – che se ammessi dovranno pagare una retta cara attorno ai 7 mila euro e trasferirsi a Tirana – c’erano i genitori. Una mamma si lamenta: “E’ una vergogna, lo Stato costringe i nostri ragazzi ad andarsene via”. Un classico. Per poi lasciarsi andare: “Chi devo pagare per far passare mio figlio?”. Un altro classico. In due battute il meglio di noi italiani. La colpa non è mai nostra. Dello Stato, sempre malvagio e cattivo, che ci mette i bastoni tra le ruote. Che favorisce i figli di papà. Che manda avanti chi paga, i raccomandati. E purtroppo è vero, ma non sempre. Capita che il merito conti, è raro, ma capita. E allora, ecco che l’italiano si adegua. E si fa riconoscere. Chi devo pagare per far passare mio figlio? Chi e cosa devo ungere? Tutto il mondo è Paese, si sa. E noi sappiamo come funziona.
Un giocatore professionista costretto a chiedere scusa con un video per avere salutato i tifosi avversari, gruppi ultras che sono soliti a essere nemici acerrimi ma che solidarizzano e protestano compatti. E’ stata una brutta giornata per il calcio italiano, davvero.
Domenica 6 ottobre. E’ appena terminato il derby Benevento – Nocerina, Felice Evacuo, attaccante dei padroni di casa, viene circondato, assediato dai propri tifosi. Colpevole. Di aver salutato i suoi vecchi sostenitori, quelli della Nocerina. Non basta. Perché il presidente del Benevento, Vigorito, chiede le scuse. Del giocatore, ovviamente. Evacuo pensa di mollare, ma poi viene convinto. Viene realizzato un video, un messaggio in cui il giocatore sembra essere un ostaggio. Chiede scusa, chiarisce il proprio gesto. Probabilmente non voleva realizzare questo messaggio. Anzi, sicuramente, perché basta vedere l’ultimo secondo del video, prima che esso sfumi, per accorgersi di un eloquente segno di Evacuo. Questo però conta relativamente. Semplicemente, non c’era nessun motivo, nessuno, per chiedere scusa. Si è macchiato di quale colpe? Perché il Presidente lo ha accusato? Perché non lo ha difeso dalle critiche feroci di qualche tifoso?
Perché, forse, succede quello che accade anche nelle altre categorie. Nella Serie A si sono scoperti ora gli effetti dell’inasprimento delle norme, volute dall’Uefa ma richiesti da tutti, per i cori razzisti. In Italia, esiste anche la discriminazione territoriale. E i cori in cui si urla Napoli colera, Vesuvio lavali col fuoco vengono etichettati così. Succede da diverse stagioni. E questi cori vengono puniti e si sa quali sarebbero stati le conseguenze. Forse, come spesso succede in Italia, nessuno credeva che questa volta si sarebbe fatto sul serio. E scatta la rivolta. I gruppi ultras fanno comunella, chiedono a tutti di innalzare quei cori. Si parla di voler silenziare i tifosi, di proibire la loro libertà d’espressione. Obiettivamente, affermazioni che stonano, e molto, col contesto. Eppure, su un punto si ha ragione. Chiudere uno stadio per cori offensivi significa allontanare ulteriormente le persone dagli impianti, chiudere uno stadio per cori come quello su Napoli (o qualsiasi altra città) significa dare una pericolosa arma in mano a dei gruppi. Punire i responsabili, non la collettività. Il colpirne uno per educarne cento – che non hanno colpe – lasciamolo nei libri di storia.
Una brutta giornata. Servirà a capire che negli stadi si può tifare senza insultare gli avversari? Che è questione diversa dagli sfottò e dall’ironia. E la vicenda, triste, di Evacuo illuminerà qualche mente? Senza poi dimenticarsi un piccolo particolare. Squalificare, chiudere settori in casi di episodi di violenza, o per cori tristi contro Superga, Heysel.
L’Inghilterra non è l’Italia. Dove regna la Regina, il minuto di silenzio è tale. Tutti zitti, pure le mosche. Nessuno fiata. E’ un silenzio pieno, non vuoto. Non è il silenzio italiano, tanto che a un certo punto si è iniziato a chiamarlo minuto di raccoglimento. Quindi, d’applausi. A volte per coprire i fischi. Oppure, i cori. Addirittura l’Inno di Mameli. Il peggio, alcuni dei tifosi presenti negli stadi, lo danno in questi momenti.
Nel weekend, anche in maniera retorica e ipocrita se volete, lo sport italiano si è fermato per un minuto. Menti e cuori sarebbero dovute andare ai quei poveri cristi che sono morti nel mare di Lampedusa. In silenzio, per pregare. O solo per rispetto, perché la vita, e la morte, dovrebbero unirci. Invece no. C’è chi usa quel minuto per insultare la tifoseria avversaria, chi fischia e chi canta l’Inno d’Italia. Come se fossero morti di Serie B, morti che non meritano rispetto e qualche secondo di silenzio. Niente, quando le idee politiche e il becerume entrano negli stadi è una sconfitta per tutti. Non siamo l’Inghilterra, non lo saremo mai.
A chi ama leggere e/o interessarsi della storia del mondo recente (ma anche passata) balza all’occhio come uno dei grossi impedimenti della democrazia si manifesta quando i poteri, più o meno forti, più o meno volontariamente (chi scrive anche se non ci crede vuole lasciare il beneficio del dubbio in alcuni casi) limitano la liberà d’espressione.
Sia chiaro non intendiamo l’insulto libero, la denigrazione fisica e caratteriale dell’avversario o la gratuità di insinuazioni faziose e omertose ma intendiamo la distorsione dell’informazione. Chiunque abbia letto della prima e della seconda guerra mondiale sa come in ognuno degli stati attori principali di quegli avvenimenti la manipolazione dell’informazione pubblica sia stata una delle chiavi del prosperare di guerre e dittature. La Germania di Hitler usava la violenza, l’Inghilterra delle Camere utilizzava l’omissione di fatti e situazioni, l’America il raggiro dell’opinione pubblica: tre esempi a caso.
E’ nella natura umana, è una normale conseguenza del volere a tutti costi perpetrare una propria idea e convincere il prossimo a farla propria.
Al giorno d’oggi, purtroppo, la situazione sembra la medesima. Dico purtroppo perchè la differenza tra inizio secolo, tra il 1400 o l’impero romano è che l’essere umano si è evoluto o quanto meno fa finta di averlo fatto. E’ indubbio che il livello di istruzione viene garantito molto più efficacemente rispetto al passato, prossimo e remoto, tutti sono informati sulle cose a cui sono interessati e nell’era di internet, per chi ne ha accesso, è più facile avere pluralità di fonti.
Guardando in casa nostra e senza addentrarci nell’annoso problema del “internet: good or evil?”, quello che si è messo in moto per contrastare questa tendenza all’informazione è il completo servilismo dei canali standard, al limite di quei fenomeni passati di manipolazione collettiva. Il passo rimane comunque brevissimo. Telegiornali e giornali che tifano per l’una o per l’altra fazione, programmi tv pieni di aria fritta, politicanti e imprenditori che normalmente rilasciano dichiarazioni senza curarsi di eventuali bugie piccole o grosse.
Non è solo un discorso politico-economico anche se è quello che sulle nostre vite ha la maggiore influenza. Mi viene in mente il settore sportivo, tre giornali in Italia pronti uno a difendere Torino, uno Milano e l’altro Roma-Napoli, senza nessun ritegno e senza paura di mentire o gettar fango sul prossimo. Mi viene in mente il settore ristoratore/alberghiero, dove ora per avere delle recensioni di tutto rispetto devi comunque usare dei raggiri, quando dovrebbe essere normale che se uno offre un buon servizio, venga ben recensito. Mi viene in mente il settore musicale, dove ovviamente vengono spinti e “lumati” solo i cosiddetti raccomandati, ormai da anni.
Molte delle parti che contribuiscono a questo processo così mellifluo verso i poteri forti lo fanno controvoglia, vittime di contratti precari che li obbligano a soddisfare le richieste dall’alto, di vecchi e boriosi capoccia che vivono ancora in passate dimensioni, figli di idee obsolete e limitanti la libertà d’espressione.
E’ un momento di crisi dell’informazione nella sua natura più pura o è solo una sua evoluzione? Possibile che sia così difficile avere dei canali onesti e sinceri in Italia? Intendo che non siano low cost e/o semisconosciuti. Che sia davvero il preludio a una rivoluzione storica, magari meno evidente ma più subdola che segni questo momento storico..? Che sia io troppo pessimista?